mercoledì 29 marzo 2023
Sembra molte volte così arduo, quasi impossibile, liberarci da certe immagini interiori che ci accompagnano, custodite tra le pieghe dei pensieri, ricorrenti, nitide ma ossessive nel loro ripetersi, pronte a sbiadirsi un istante per subito poi di nuovo tornare a fare capolino. Visioni ripetitive in modo tormentoso, se anche intermittente. Dire quelle immagini, dar loro figura nel mentre le si scrive, può essere la più sensata e giusta strada, miglior soluzione per sfuggire alla tirannia di un loro onnipresente campeggiare tra i pensieri. Franz Kafka disse che scrivere storie era per lui «un modo di chiudere gli occhi». Immagine di feroce esattezza, come sempre le sue. Scrivere, descrivere, raccontare come massima liberazione: magari temporanea, ma ugualmente foriera di grande sollievo, momento di sosta, che marca una pausa, apre una parentesi di riposo dalla fatica di quel reiterarsi di idee fisse celate sotto l’aspetto di invasive visioni. Sviluppare quelle stesse immagini, offrirle in dono dopo averle scolpite grazie al preciso scalpello della lingua, dare forma a storie e parole davvero esatte, vuol dire fare spazio, sgravarsi. «Si fotografano delle cose per allontanarle dalla propria mente», ancora Kafka, dove l’uso del verbo “fotografare” è avamposto della sua modernità assoluta. © riproduzione riservata
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