mercoledì 29 giugno 2022
Temo che se un giornalista audace potesse entrare in quei campi in cui si smistano decine di migliaia di profughi ucraini, rifugiati - più o meno volontariamente - in Russia, quei reportage verrebbero letti in Italia per tre giorni, e poi basta. Se poi quel giornalista scrivesse in presa diretta del destino dei ventimila bambini del Donbass tolti alle famiglie e portati in Russia per essere adottati - è la denuncia delle Nazioni Unite di cui scriveva domenica il nostro inviato a Odessa Nello Scavo - beh, non lo so, se in Occidente vorremmo leggerne o no. E non solo perché tanto dolore fa male. Le deportazioni, le rieducazioni forzate, gli stupri, le fosse comuni colme di civili, i bambini come bottino - ramo vivo strappato e piantato nella terra del nemico - sono il discrimine fra la guerra, che è sempre brutta, e un male scientifico e programmato per distruggere un popolo. Si chiama genocidio, una parola da non pronunciare alla leggera.
Ma forse, non vogliamo saperne troppo. Bruciano, certe cronache. Come quelle di Etty Hillesum, ebrea, dal lager olandese, di Westerbork, nel '42-'43. Pagine splendide, luminose, spesso atroci. Ma sono state pubblicate molti anni dopo, e quasi sottovoce. Quando potevamo dire: "Ormai è tutto finito. Come mai nessuno è intervenuto? Fossimo stati noi, avremmo gridato, avremmo reagito…"
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