«Le foto che non ho fatto». I “fantasmi” di Hervé Guibert
lunedì 19 aprile 2021

«Un giorno, quando ancora i miei genitori abitavano a La Rochelle in un grande e luminoso appartamento, decisi di fare una fotografia a mia madre. All’epoca dovevo avere diciott’anni ed ero tornato là per un fine settimana». Dopo una meticolosa preparazione, «scattai la foto. In quel momento era al sommo della sua bellezza, il viso disteso e liscio. Non parlava. Le girai intorno. Aveva sulle labbra un sorriso impercettibile, indefinibile di pace, di felicità, come se la luce la bagnasse, come se quel lento girare intorno a lei, a distanza, fosse a più dolce delle carezze». Il giovane fotografo usava per la prima volta la Rollei 35 appena comprata da papà, insieme «al materiale per lo sviluppo che aveva installato nella sala da bagno». Ma quando andarono a sviluppare quella pellicola, niente. Tutto bianco. «Bisognava arrendersi all’evidenza: non avevo ben inserito il rullino nella macchina fotografica, la pellicola si era staccata da quei piccoli denti che la bloccano e la fanno avanzare. Avevo fotografato “a salve”. Un vuoto, l‘istante essenziale perduto, sacrificato». Fu come la rottura di un’alchimia. «Non cercai più di fotografarla. E lei invecchiò». Nel 1981, Hervé Guibert – scrittore, giornalista, fotografo, critico per il quotidiano Le Monde, morto nel 1991 per Aids – pubblicava per Les Éditions de Minuit L'image fantôme, il rapporto con il suo vissuto fotografico che nasceva proprio da quella foto mancata. «Ciò che mi ha spinto a scrivere è stato il rimpianto per le foto sbagliate, le foto che non sono riuscito a scattare, che non ho potuto fare, che si sono rivelate invisibili, come fantasmi. Ho pensato di scrivere per ritrovare la stessa sensazione che volevo dare a quelle foto». Pagine e riflessioni attuali, quelle di Hervé Guibert che vengono pubblicate ora per la prima volta in italiano, nel trentennale dalla morte dell’autore e a quarant’anni dalla prima edizione, da Contrasto (L’immagine fantasma, pagine 200, euro 14,90, con l’introduzione di Emanuele Trevi). Un testo che inaugura anche la nuova collana della casa editrice diretta da Roberto Koch, “Lampi”: piccoli ma preziosi libri che «come bagliori che illuminano di colpo, e in modo chiaro e nitido, aspetti, personaggi, racconti ed autori per riflettere sul ruolo della fotografia e sul senso dell’immagine nel nostro tempo». Con una copertina di una carta speciale, realizzata con gli scarti alimentari. Nel caso di Guibert, olive.

Il libro è una raccolta di storie che esplorano, attraverso le avventure personali, i diversi tipi di fotografia: familiare, di viaggio, le fototessere, le Polaroid, la fotografia erotica o giudiziaria. Si parte dal racconto di quella foto “fantasma” della madre, per addentrarsi nell’inventario delle scatole fotografiche, “viaggiare” con la scrittura fotografica di Goethe, passando per i personaggi e le visioni rimaste nel rullino della memoria, come il "rimorso fotografico" dell’impossibilità di fotografare dei ragazzi che in un giorno di mare grosso facevano il bagno all’isola d’Elba. Flash narrativi che illuminano pensieri nati quasi a commento de La camera chiara (1980) di Roland Barthes, di cui sembra una sorta di continuazione letteraria. Di certo i due testi si parlano. Guibert e Barthes – racconta Trevi – si erano conosciuti e avevano un rapporto «non privo di qualche amarezza e contrasto, ma fondato su una sincera stima reciproca». Rispetto al libro di Barthes, L’immagine fantasma ha il comportamento del parassita, che trae dalla sua vittima la linfa vitale finendo per svuotarla». La recensione alla “Camera chiara” pubblicata da Guibert su Le monde del 28 febbraio 1980, Barthes non la lesse mai: era stato coinvolto tre giorni prima nell’incidente stradale a causa del quale morì il 26 marzo. «Per citare il più celebre della Camera chiara, che è quello del punctum dell’immagine fotografica nel suo rapporto con l’osservatore, a Guibert sembra dar fastidio… che la parola scelta sia in latino! Ma questi fastidi, come si sa, spesso sono indizi visibili di questioni più profonde», annota Trevi. E così si torna al punto: «Barthes, nutrito profondamente di Proust e Gide, è un vero uomo moderno, un uomo edipico se mai ce ne furono. E L’immagine fantasma può essere letto come un’esplicita aggressione». Che affonda i colpi pagina dopo pagina. Fino a quello finale.

Se Barthes nell’ultima parte della sua stagione creativa è segnato «dall’impossibile elaborazione del lutto per la morte della madre, Henriette Binger, il 25 ottobre 1977», Guibert racconta: «Un giorno gli scrissi una lettera per esprimergli il mio desiderio di fotografarlo con sua madre, perché era a lei che consacrava tutto il suo tempo e il suo affetto. La foto poteva essere semplice e banale in sé» ma «era la foto, la sola possibile per me, in quel momento di R.B.. Non ebbi risposta». Guibert dopo qualche tempo lo chiamò: «La sua voce era ancora più smorzata, più spenta che d’abitudine. Gli chiesi se avesse ricevuto la mia lettera. Mi rispose: “Non sei al corrente? Mamma si è spenta dieci giorni fa…”. Aveva ricevuto la mia lettera nel momento in cui sua madre era già morta, o stava morendo, o era appena morta». La “lezione” che apprende Guibert dalla strana avventura con il “maestro” è che «quel che volevo fotografare, quel desiderio che a volte si scatenava in me, era sempre qualcosa di vicino alla morte». La foto, «il più vicino possibile alla morte». Un «dato comune e quasi volgare della fotografia». «Non è del resto il premio di ogni reporter, di ogni fotografo inviato in zone di guerra, di catastrofi, di carestie, portare la foto il più vicino possibile alla morte, e anche a volte la foto della morte?». Quella di Guibert con Barthes è ancora una storia di una “immagine fantasma”. Di una immagine che prende forma – per dirla con Trevi – «nella camera oscura della mente di chi legge» e si muove nello «spazio narrativo di Guibert». Dove il sentimento che regna è «la malinconia», quella che «garantisce all’immagine mentale, all’immagine che non si è potuto materialmente realizzare una persistenza del fantasma nello spazio psichico che trova necessariamente nella scrittura il suo veicolo ideale».

Una foto (fantasma) e 998 parole.

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