domenica 23 ottobre 2016
Un celebre affresco del XV secolo, dipinto dal veneziano Vincenzo Foppa, rappresenta Cicerone fanciullo che legge. Sta seduto davanti a una finestra, le gambe curiosamente divaricate e il volto chino su un libro che tiene con la sola mano sinistra mentre la destra è appoggiata sulla coscia; la testa tutta intera è inquadrata nel contrasto con il nero delle fronde degli alberi sullo sfondo. Il legame tra gli alberi e il libro è quello della carta, e se si aggiunge il legno della panca sulla quale siede il giovane Cicerone, allora tutto l'atto della lettura è circondato dalla presenza discreta del vegetale. Lo stesso verbo legere rimanda in origine all'atto di legare covoni o di cogliere frutti. Lo si sente ancora in intelligere e diligere come se, in latino, "comprendere" e "amare" si basassero ancora su un certo senso agricolo. Il termine stesso di "cultura", inteso nel senso moderno, viene da Cicerone con le sue Tusculanes: «Cultura animi philosophia est». Heidegger avvertiva in questo passaggio dalla philosophia greca – amore della saggezza – alla cultura latina – agricoltura applicata all'anima – una decadenza del pensiero. Di fatto, si passa da un amore a una tecnica. Si tratta di arare, seminare, prendere cura, in vista di un certa resa. Non più la gratuità di una passione ma l'efficacia di un lavoro. Bisogna considerare tuttavia il contesto in cui la formula di Cicerone compare. Essa risponde a un'obiezione che delinea i limiti dell'insegnamento filosofico: «Non si dovrebbe temere che le lodi di cui tu ricolmi la filosofia siano falsa gloria? Cosa ne dimostra l'inutilità più del modo vergognoso in cui vivono alcuni perfetti filosofi?». L'interlocutore fa notare a Cicerone lo scarto, frequente nei filosofi, tra le parole e gli atti, tra l'ordine speculativo e quello pratico, un po' come qualcuno che di fronte al farisaismo concludesse la vanità della religione: ci si riempie il cervello, ci si monta la testa, ma il cuore resta una cloaca. È a questo punto che Cicerone risponde con un paragone agrario: «Non tutti i campi, anche se coltivati, danno frutto, ed è falso ciò che ha detto il poeta Accio, che il buon seme, anche se sparso in un campo sterile, farà per sua virtù biondeggiare le messi; così non tutti gli spiriti, anche se coltivati, fruttificano. E, per continuare nel paragone, come una buona terra non coltivata non può dare frutto, neanche può un'anima priva di cultura». Occorre dunque una rendita: Heidegger non ha del tutto torto. Ma come si ottiene tale rendimento? Con un produttivismo? Con una efficienza volontaristica? No, per quanto potente sia la nostra tecnica, essa non è niente senza la virtù della buona terra. Ogni rendimento presuppone un dono iniziale, una grazia, una bontà di cui non siamo noi la sorgente ma che è data da Bacco e da Cerere, ed è per questo che l'agricoltura stessa fa appello al culto religioso e che il rendere grazie è necessario prima ancora della ricompensa del merito. Nel Catone il vecchio, Cicerone insiste su questa generosità della buona terra: «Difatti, gli agricoltori hanno un conto aperto con la terra, che non respinge mai la loro opera e non rende mai senza interessi ciò che ha ricevuto, ma dà un reddito talvolta piccolo, spesso considerevole». L'affermazione si ritrova nella parabola del seminatore, nella quale la terra buona dà frutto, dove il cento, dove il sessanta, dove il trenta (Mt 13, 9). L'impressione è quella di una scommessa sportiva o di un investimento finanziario, e sembra che i campi, in fin dei conti, offrano guadagni più grossi della Borsa. La differenza essenziale sta nel modo in cui questo rapporto accade: non attraverso le nostre speculazioni e i nostri traffici, ma tramite un'offerta originale, che non ci era dovuta, così che la ratio cum terra, il "conto" o il rapporto che abbiamo con la terra consiste in una tecnica che non pretende di avere l'iniziativa o il dominio, e che dunque rispetta e più ancora celebra un dono originario. Non bisogna mettere l'aratro davanti ai buoi, ma non bisogna neppure mettere i buoi davanti agli dei. Nel De officiis, investigando la gerarchia dei mestieri remunerativi, Cicerone arriva a questa evidenza dimenticata: «Tra tutte le occupazioni, da cui si può trarre qualche profitto, la più nobile, la più feconda, la più dilettevole, la più degna di un vero uomo e di un libero cittadino è l'agricoltura». Al contrario, precisa subito, niente è più degradante del commercio. La nostra epoca ha invertito totalmente questo ordine gerarchico. Non si capisce più che l'agricoltura è non soltanto il fondamento dell'economia e della giustizia (perché produce il nutrimento originario) ma che è anche un modello per ogni azione: con essa, quando non sfigurata dal tecno-capitalismo, si tratta di accompagnare con gratitudine un dinamismo naturale e non di controllarlo con giochi di prestigio. Altrove, nelle Tusculane, Cicerone propone unasingolare prova dell'immortalità dell'anima, che si potrebbe chiamare la prova degli alberi: «Tutti hanno grandissima preoccupazione per ciò che avverrà dopo la morte. "Pianta alberi che frutteranno per la generazione seguente", dice Stazio nei Sinefebi. Che cosa sta affermando se non che anche le future generazioni lo riguardano? Se dunque l'agricoltore diligente pianterà alberi di cui egli non vedrà mai il frutto, il grande uomo non pianterà forse le leggi, le istituzioni, la repubblica?». Sarebbe bello che i nostri politici – che fanno campagne ignorando le campagne – passassero alcuni anni a piantare alberi, per ritrovare il tempo lungo della vera cultura, la dignità degli uomini liberi e il senso del bene comune.
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