La cultura italiana soffre ancora troppo di conformismo ed esterofilia
sabato 2 febbraio 2008
Fragile vaso di coccio, la cultura italiana viaggia da decenni fra i vasi di ferro di culture più solide e autorevoli, quella francese, tedesca e americana.
Siamo il paese delle mode culturali importate, un paese senza sovranità intellettuale, in cui si cambia idea solo per adottare idee che ci vengono suggerite da qualcuno che non sta qui.
Ricordo che venticinque anni fa, nel corso di un convegno di estetica a Palermo, dopo la mia relazione antistrutturalista e antiformalista, mi si avvicinò con aria circospetta e insinuante un altro docente per chiedermi in confidenza se avevo letto Harold Bloom. No, non lo avevo letto. Le cose appena dette erano venute in mente proprio a me. Ma per lui era quasi incredibile. In Italia i "colleghi" intellettuali accettano un'idea poco usuale solo se sanno che non è tua, ma l'hai rubata per primo a qualcuno che insegna ad Harvard o a Stanford.
In un convegno recente sulla critica letteraria, ben quattro relatori su dieci hanno citato Edward Said per convincere gli ascoltatori che bisogna "dire la verità": infatti Said è autore di un libretto intitolato Dire la verità. A quanto pare c'era bisogno di un critico che ha insegnato negli Stati Uniti per rendere accettabile l'idea che la verità è meglio della bugia. Qui per decenni centinaia di letterati hanno invece preso in parola la formula di Giorgio Manganelli «letteratura come menzogna», immaginando che finzione o invenzione artistica equivalgano a falsità, arbitrarietà, irrealtà, antirealtà, puro gioco formale, lotta contro il significato.
Ora apprendo da un articolo di Paolo Di Stefano sul "Corriere della sera" che lo strutturalista anni sessanta Tzvetan Todorov dice che in letteratura le parole non devono parlare solo di se stesse, ma del mondo, perché il mondo esiste ed è per capirlo che leggiamo i libri. Todorov ce lo insegna. I nostri professori lo impareranno?
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