giovedì 2 dicembre 2021
Avremmo tutti bisogno di un ombrello, compreso chi non lo porta mai e preferisce abbassare il cappuccio o mettere il cappello. Un ombrello speciale, come quando piove, ma da usare anche con il cielo azzurro, per ripararsi dallo scorrere lento delle cattiverie, delle parole fuori posto, del veleno gratuito, che a differenza dell'acqua non scivola via ma ti resta appiccicato addosso. Dovrebbe essere comodo, con l'apertura a scatto, e bello largo così che un'amica si possa appoggiare al tuo braccio. E allora vedresti i discorsi inutili cadere a terra, e la bocca dell'invidia e del rancore finalmente chiusa. O forse l'ombrello è un di più, è superfluo. Basterebbe lavorare sulle nostre stesse parole, sfregarle come si fa con la carta vetrata sui muri prima di riverniciarli. Liberarle dalle incrostazioni della noia, della pigrizia, della rassegnazione. Un uomo saggio raccontava che da bambino i compagni lo prendevano in giro perché non diceva parolacce. Dai e dai, a furia di resistere, ma senza prediche, alla fine in quel gruppo di ragazzi non le usava più nessuno. E tra gli aneddoti su un grande uomo di Chiesa si ricorda l'attenzione quasi maniacale al tono dei discorsi. Appena si rischiava il pettegolezzo lui educatamente salutava, sorrideva e andava via. Il suo ombrello era ed è sempre aperto.
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