mercoledì 29 maggio 2019
È curioso che nel Canto XII dell'Eneide la medicina sia detta «arte muta». Questo, per distinguerla dalla medicina popolare, in cui non di rado l'azione terapeutica si confondeva con le divinazioni degli àuguri e con le formule degli incantesimi. Per contrasto, la medicina si è affermata storicamente come una tecnica che si esercita senza ricorso alla dimensione verbale. È questa, in larga parte, la strada seguita in Occidente fino ai giorni nostri. La parola è presente soprattutto, se non esclusivamente, nel momento della diagnosi.
Eppure, fin dall'antichità – pensiamo ai testi di Omero – l'arte di curare contemplò sempre il ruolo terapeutico della parola. Patroclo, per esempio, non si occupa della ferita della freccia che ha colpito Euripilo soltanto con la sua abilità chirurgica e con droghe che placano il dolore, ma con le parole incantatrici con cui lo diletta. La parola è insomma una parte significativa della complessa arte di curare. Si credeva - e, secondo me, non a torto - che la parola ha la proprietà di modificare l'animo umano. È davvero bella l'esclamazione che troviamo in una delle tragedie di Eschilo: «Non sai, o Prometeo, che ci sono discorsi che curano l'infermità?». E una delle richieste più commoventi fatte a Gesù, nei Vangeli, si pone in questa linea: «Io non sono degno che tu entri sotto il mio tetto, ma di' soltanto una parola e il mio servo sarà guarito» (Mt 8,8).
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