sabato 20 gennaio 2018
Per Giovanni Paolo II ogni viaggio era «un autentico pellegrinaggio al santuario vivente del popolo di Dio». E, a spiegare ulteriormente il perché viaggiare fosse divenuto una necessità imprescindibile, aggiungeva che «Roma non è più "a Roma", ma proprio perché è il cuore della Chiesa pellegrina, è diventata pellegrina anch'essa sulle strade del mondo». Un'idea assolutamente semplice, che offre una visione lineare e immediata delle ragioni per le quali, nella Chiesa contemporanea, è impensabile immaginare un vescovo di Roma che non esca dalle mura del Vaticano. «Questo pellegrinaggio sia rapidissimo, abbia carattere di semplicità, di pietà, di penitenza e di carità», aveva scritto a sua volta Paolo VI in un appunto del settembre 1963, quando studiava la possibilità di riuscire a visitare la Terra Santa. Semplicità, pietà, penitenza, carità: caratteri che, a ben vedere, attraversano la storia dell'ultimo mezzo secolo di pontificati, a segnare lo "stile" dell'andare per il mondo del successore di Pietro quale momento irrinunciabile del suo ministero.
Il Papa viaggia, insomma, per incontrare gli uomini e le donne là dove essi abitano, per annunciare il Vangelo e confermare nella fede, con i ritmi e tempi della Chiesa. Tutto qui, molto semplicemente. Secondo quella che è, alla fine, la missione eterna di Pietro, in uno sforzo continuo di "farsi vicino", ma vicino per davvero; sforzo, per inciso, che con il rifiuto di papa Bergoglio di utilizzare, in qualunque circostanza, vetture blindate (così come lussuose limousine) ha infranto un altro muro.
Alla vigilia del rientro di Francesco dalla sua visita in Cile e in Perù, non è superfluo questo ricordare ragioni e caratteri del viaggiare del Papa. Perché la narrazione mediatica di tali eventi, secondo uno schema ormai fisso da anni, non rispecchia mai la realtà, ma si nutre piuttosto di stereotipi "secolari" – i costi, le contestazioni, le difficoltà previste o presunte, le "sfide" – attorno ai quali il racconto si dipana. E la cronaca finisce per diventare una caccia ai riscontri, per verificare se il Papa dirà questo o quello secondo i criteri del politicamente corretto e del mediaticamente preordinato, se pronuncerà quella specifica parola oppure no, e se sì, come lo farà, se con tono "giusto" oppure no, chi incontrerà e chi no..: Un frenetico, quasi compulsivo frugare nei dettagli – ricordate gli ultimi viaggi di Wojtyla? Quando tutto sembrava ridursi a quanto tremasse il vecchio Papa, e se ce l'avrebbe fatta? – dai quali poter in ultimo impacchettare il tutto nelle categorie del "successo" o dell'"insuccesso".
Ma in questo modo, inevitabilmente, si perde la prospettiva autentica. Perché, appunto, un viaggio papale non è una missione diplomatica, né una visita di Stato; non ci sono trattative aperte da affrontare, interessi da coltivare o da affermare. Non ci sono obiettivi misurabili con un metro umano, traguardi, né tantomeno "carnieri" da riempire con chissà quali risultati. Niente di tutto questo. L'unica prospettiva è quella dello spirito, di una missione che, attraverso i gesti, si fa storia giorno dopo giorno a contatto con le donne e gli uomini che, la storia, la abitano. E, in ultimo, è questa e soltanto questa la chiave per poter capire, e spiegare, come mai tanti di questi viaggi apostolici abbiano sul serio contribuito a cambiare in modo concreto e visibile il corso della storia stessa. Come tanti granelli di senapa «che, quando viene seminato per terra, è il più piccolo di tutti semi che sono sulla terra; ma appena seminato cresce e diviene più grande di tutti…». D'altra parte, non è forse così dall'inizio del mandato apostolico?
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