domenica 6 febbraio 2005
Nessuno ha il diritto, mai, di porgere la parola di Dio in vestaglia. Prepararla come forma, ma soprattutto come fondo. La predica dovrebbe avere una gestazione lunga di preghiera, di pensieri, di affetti. Oggi è domenica e migliaia sono le prediche che caleranno dai pulpiti sui fedeli. Ormai è diventato un luogo comune lamentarsi sulla qualità delle omelie, riprendendo un filo per altro caro prima di tutto agli scettici alla Voltaire che comparava l'eloquenza sacra alla «spada di Carlo Magno, lunga e piatta». C'è ovviamente una verità in tutte queste recriminazioni, non solo a livello di stile ma anche di contenuto, perché spesso i predicatori si accostano alla parola di Dio con superficialità e, quindi, col risultato deleterio di banalizzarla, di neutralizzarne l'efficacia e persino l'"offensività" (la Lettera agli Ebrei la compara a una spada e Geremia a un martello e a un fuoco). È ciò che rimprovera anche quello scrittore e sacerdote geniale che è stato don Giuseppe De Luca, un lucano trapiantato a Roma, presenza vivace nella cultura italiana del Novecento. Egli sottolinea due elementi che valgono per tutti. Il primo: non bisogna mettere la parola di Dio in vestaglia, riducendola a una realtà ordinaria, trasandata, ovvia e scontata. Certo, essa tocca la quotidianità ma non per lasciarla indenne e intatta. Il secondo dato è ancor più importante: per conoscere e testimoniare la parola sacra non basta un'attrezzatura teologica (pur necessaria e insostituibile). È indispensabile la «gestazione lunga di preghiera, di pensieri, di affetti». È quel far risuonare la parola divina nell'orizzonte aperto del cuore e dell'anima, in un intenso ascolto interiore.
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