domenica 17 giugno 2018
Il cielo di piombo somigliava al disotto di un'amaca sulla quale un sole freddo e obeso stava accasciato. Aria di temporale, ma di un temporale che non riusciva a decidersi. L'enorme camino che sormontava la città continuava a passare il suo pennello di fuliggine sulle nuvole pesanti. E sotto quella chiarezza grigia ancora nessuna ombra, o forse tutte le ombre erano state aspirate e sputate in fumo lassù. E tuttavia, contrariamente alla convenzione romanzesca che vuole che la descrizione dei luoghi corrisponda allo stato psicologico del personaggio, mi sentivo ancora pieno di una luce calda e di nuovo sorprendevo le mie labbra che canticchiavano il ritornello di un altro canto carismatico, non meno detestabile del precedente: «La notte buia ci inghiottì / ma la Tua luce non svanì / Sì, Sì, Sì, Sì / la Tua luce non svanì...». Una volta, queste parole corredate dal loro ritornello pubblicitario, sarebbero bastate a guastarmi una bella giornata d'estate. Ora venivano da sole, mi uscivano piacevolmente da profondità che non saprei se attribuire allo Spirito Santo o a una vacuità abissale – forse tutt'e due contemporaneamente: «Uno, Due…». Non che fossi in pace con me stesso. Non c'era più davvero un me stesso in me. Accoglievo ogni cosa nel suo incomprensibile accadere e avrei potuto dire: «Tutto è grazia« ma con un accento tale da privare la parola “grazia” dei suoi riferimenti estetici, morali e religiosi, da rimandare a una gratuità veramente gratuita a cui poteva rispondere solo uno stupore veramente stupido che poteva spingersi, come si è visto, fino alla catatonia. Se insisto su questo punto, è perché ora, mentre scrivo queste righe, non sono più in questo stato in modo continuo ma sono periodicamente colpito da crisi sempre più intense, para-epilettiche o para-sonnamboliche (la cui origine neuronale, in ogni caso, è fuor di dubbio). È anche per spiegare la relativa serenità con la quale ho attraversato Chavitar e scoperto i costumi degli Exatani, i suoi abitanti. Tutti parlavano soltanto di viaggi imminenti. Si baciavano, si dicevano «arrivederci» o «a presto» ma senza darsi ai preparativi che uno poteva aspettarsi. Al contrario, erano preoccupati solamente di curare le loro vacche, fare grandi pranzi a base di latticini e aumentare di peso, come se ingrassare fosse la condizione per la partenza. Ogni volta che ci incrociavano ci indirizzavano uno sguardo beffardo che si trasformava rapidamente in indifferenza: eravamo troppo magri per beneficiare del convoglio, e non erano disposti a condividere con noi il grosso formaggio che costituiva l'essenziale della loro alimentazione - una pasta molle costellata di muffe tipo roquefort o gorgonzola, ma di un blu ardente, come se l'azzurro del cielo stesse ormai soltanto nelle macchie del loro formaggio. La nostra situazione si modificò completamente dopo la scena che sto per raccontare. Un dignitario sceso dai cerchi superiori della Città - tunica con paramenti foderata di pelliccia, berretto con paraorecchie, collana d'argento pendente fino al grosso ventre prominente - discuteva con un uomo dei quartieri bassi che gli presentava sua madre: «La prenda», supplicava quest'ultimo. «Non ne troverà un'altra così tenera, glielo garantisco». «Dici questo perché è tua madre», osservò il grasso dignitario palpando la signora che, come una bestia in una fiera, non reagiva. «È vecchia però, e le vecchie sono sempre un po' coriacee. Ne so qualcosa. Molti figli devoti che come te ci hanno affidato le loro madri. Se accetto, è per pura carità. Ma non dovrebbe partir da sola. La tua secondogenita potrebbe accompagnarla, vero? Mi sembra già prosperosa». «Oh! certamente, signor comandante di vascello! Sarebbe un onore per la nostra famiglia!». Il comandante si accorse allora della nostra presenza. Considerò prima Ugo, poi il cane, poi mi squadrò lungamente. Era tuttavia il nostro insieme che lo colpiva. Era chiaro che gli ricordavamo qualcosa, qualcosa di molto importante. Borbottò nel suo triplo mento: «La profezia… Due stranieri bizzarri e il loro cane». Poi con una voce che aveva perduto tutto il suo sussiego, quasi balbettando: «Sign… Signori… Credo che il Sire, si il gran Sire di Chavitar sarebbe desideroso di incontrarvi… Vogliate seguirmi lassù…». Da quel momento, gli Exatani dei cerchi inferiori ci guardarono diversamente. I padri di famiglia volevano offrirci del burro e ci scongiuravano di prendere con noi chi la madre, chi il padre, chi la figlia o il figlio, chi addirittura la moglie, garantendoci che l'avremo trovata di
nostro gusto. Bene. Alla fine doveva succedere. Mi stupisco anzi che fino a quel momento la Metagonia non ci avesse messi di fronte a quella pratica. Dopo tutto è il grande cliché sui selvaggi. Il grande classico del racconto di viaggio. La curiosità dei libri di etnologia (Tupinamba del Brasile, Korowai della Nuova Guinea…) e il terrore del mito e della storia recente (il banchetto di Tieste, l'affare Nazino sotto Stalin, i sopravvissuti delle Ande già rievocati in queste pagine…). Insomma, come il lettore ha già capito, gli Exatani si dedicano a quell'usanza abbastanza normale e direi anche banale in un testo che vuole procurare a poco prezzo al lettore il brivido dell'orrore affascinante. Sono cannibali. O meglio, sono cannibali passivi. Non si tratta per essi di mangiare carne umana, ma di essere loro stessi mangiati e più ancora di essere certi che la carne dei loro cari venga mangiata, dopo essere stata rosolata per bene nel burro, da qualche membro della casta superiore. Chavitar è costruita su sei anelli sovrapposti e concentrici. Quelli che abitano l'anello di base, il più largo e popoloso, si nutrono principalmente di latte di mucca e più particolarmente di una specialità casearia che si chiama Bleu (parola che designa anche «la parte dal cielo al di là delle nuvole»). Non consumano mai carne, evidentemente. Le vacche sono animali sacri e gli animali in generale sono circondati da grandi cure. Del resto, a Chavitar sono tutti vegetariani, eccezion fatta per la carne umana. Questa viene mangiata solamente a partire dalla casta del secondo anello, che viene mangiata da quella del terzo e così via, fino al sesto. Al settimo e ultimo piano della Città, chiamato “la Prua”, dove si innalza il camino dei forni come il rostro di una nave verticale, abita il grande Sire, scuro e solitario. Appartiene a lui l'ingrata missione di mangiare senza essere a sua volta mangiato. Lo chiamano anche “Vascello Ammiraglio”. Perché il cannibalismo è soprattutto un mezzo di trasporto. Di trasporto verso l'aldilà. Solo quelli che sono mangiati dal grande Sire, e cioè che sono imbarcati nel Vascello Ammiraglio, possono, alla morte di quest'ultimo, fare il viaggio verso il Regno della Pace eterna. Fortunatamente questo include quelli che sono stati mangiati da quelli mangiati dal Sire, e quelli che sono stati mangiati da quelli che sono stati mangiati da quelli mangiati dal Sire ecc.. E così tutti, anche i più umili mangiatori di formaggio, possono essere salvati.
(41, continua. Traduzione di Ugo Moschella)
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