martedì 23 marzo 2021
Quand'ero bambina, d'estate, in lunghi pomeriggi solitari me ne stavo a guardare le montagne. Davanti avevo le Tofane, tre imponenti matrone. A destra il Cristallo e, sbalorditivo, elegante, il Pomagagnon. A sinistra il Bec de Mesdì, su cui il sole culminava a mezzogiorno. Ma salendo fino all'inizio del bosco riuscivo a vedere le Cinque Torri: cinque sorelle, pensavo, cinque antiche bambine trasformate in rocce da una strega. In quei caldi, immobili pomeriggi mi dicevo: quando sarò grande quelle montagne saranno lì, identiche, ancora. (Il mio essere grande, mi pareva estremamente remoto). Mi confortava, pensare che qualcosa sarebbe rimasto uguale. Volevo che qualcosa almeno restasse per sempre. Così quando, nel giugno 2004, nelle Cinque Torri una, la Trephor, è crollata, è stato per me come fosse morta una cosa viva. C'era la luna, sulla conca d'Ampezzo. Mi sono immaginata, nel suo chiarore, un lungo gemito, e poi, straziato, lo schianto di rocce legate da milioni di anni. E il tuono del rovinare a valle dei frantumi, in una nuvola di polvere candida. «Voi mi avete tradito», ho rimproverato le Torri. (Che strano pensiero avevo, da piccola: per sempre, come un desiderio innato). Nemmeno sulle montagne si può fare conto, mi ero detta, immalinconita. Mi guardo indietro ora: passando gli anni, camminando, ciò che resta per sempre, infine, l'ho trovato.
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