sabato 29 dicembre 2018
Vanno. Uno si sposa, uno è già fuori casa, resta la piccola. Ventenne, anche lei.
La casa, certi giorni mi pare troppo grande. Il lungo corridoio in cui si rincorrevano è silenzioso, e sul frigo nessuno più attacca calamite. Quando, ancora, mi capita di inciampare in uno zaino abbandonato, sono così contenta.
Lo sapevamo fin dall'inizio, che i figli non ci appartengono. Ma in vent'anni, dai biberon ai tricicli, alle elementari, all'adolescenza, ci si lega loro così visceralmente, che è facile dimenticarsene. Puoi pensare che la tua vita consista nei figli.
Poi, vanno. È giusto, e sarebbe triste il contrario: devono andare. Confesso però di sentirmi certi giorni come un albero che in autunno perde le foglie e resta nudo, i rami spogli. Taccio, cerco di non darlo a vedere. Partire, cominciare un'altra vita, è il loro mestiere.
Quando aspettavo il primo mi chiedevo se sarei stata capace di partorire. Partorire è doloroso, ma è facile, è istintivo. Ora invece è difficile, d'istinto cercherei di tenermeli stretti.
Ma volere bene è aprire le braccia, e lasciarli andare. Magari, lontano. Torneranno vicini, fra qualche anno, con un bambino in braccio? Forse. Intanto, è tempo di partorire un'altra volta. Sentendoti come una pianta quando la potano - sentendo il taglio della cesoia.
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