mercoledì 13 novembre 2002
Io sono la lampada ch'arde soave"/ Lontano risplende l'ardore/ mio casto all'errante che trita/ notturno, piangendo nel cuore,/ la pallida via della vita:/ s'arresta; ma vede il mio raggio,/ che gli arde nell'anima blando:/ riprende l'oscuro viaggio cantando. La scena è semplice. Sulla terra si stende il manto della notte. Su una strada s'avanza un viandante solitario e impaurito: egli sta "tritando" chilometri e chilometri di una "pallida via", quella che raffigura la nostra vita. Ma ecco, nella tenebra la luce della finestra di una casa squarcia e riscalda quell'oscurità. E allora il cammino diventa più sereno, il viandante prosegue il suo viaggio cantando. Era da anni che non mi capitava di prendere tra le mani gli scritti di un poeta che - come è accaduto a molti miei lettori - aveva accompagnato la mia adolescenza, Giovanni Pascoli. Mi trovo, infatti,
tra le mani, quasi per caso, i suoi Canti di Castelvecchio (1903), poesie ove temi costanti come il dolore, la morte, la quiete agreste s'intrecciano a interrogativi esistenziali. Quelli citati sono versi sbocciati nella pace della casa di questa località ove il poeta romagnolo viveva con la sorella Mariù. Essi vogliono esaltare proprio la poesia e la sua funzione di luce e di guida. Tuttavia noi possiamo ora liberamente ricondurre quelle parole al compito affidato a ciascuno di noi nei confronti dei nostri fratelli: essere, come diceva Gesù, «luce del mondo, lucerna non nascosta sotto il moggio ma su un lucerniere perché faccia luce a tutti» (Matteo 5, 14-15). Ogni persona può diventare un raggio di luce che illumina il cammino dell'altro, imprimendo fiducia e speranza.
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