venerdì 10 aprile 2015
Si parla di nuovo molto, in questi giorni, dei “fatti del G8 di Genova” del 2001, in particolare dell’irruzione notturna della polizia nella scuola Diaz dove decine e decine di manifestanti lì alloggiati vennero massacrati di botte. La Corte europea ha qualificato questi fatti, con sentenza recente, come “tortura”, e ha invitato il nostro Parlamento a provvedere rapidamente ad approntare una legge sulla tortura, perché l’Italia è uno dei pochi Paesi che non ne è ancora dotato. Si sono riaccese le polemiche, autorizzate da una sentenza super partes che fa davvero giustizia delle menzogne dei governanti di allora, e ci si augura ne derivi una presa di coscienza collettiva, data la gravità dell’argomento. Ma i “fatti di Genova” hanno assunto col tempo anche un altro significato, sul quale mi sembra importante ragionare. Si trattò infatti, al netto della minoritaria violenza perseguita dal cosiddetto Black bloc, dell’ultima grande manifestazione essenzialmente giovanile, in cui una parte rappresentativa della generazione entrata nell’età adulta da pochi anni, cercò di dire la sua, di “fare politica” oltre le divisioni in partiti e partitini, in modo diretto, senza affidare a una rappresentanza politica le sue aspirazioni, le sue volontà. Sembrò una ripresa di discorso, ma contrariamente a molte speranze tutto rientrò presto nell’ordine, quello appunto della sola rappresentanza. Dopo di allora poco o niente si è davvero mosso E i giovani hanno taciuto, vuoi delegando agli “indignati” di turno (tanti dei quali trovavano nella politica uno dei pochi modi di fare rapidamente carriera), le loro insoddisfazioni e le loro richieste, vuoi tacendo, ritirandosi in un “privato” assistito dalle nuove tecnologie, nonostante la loro situazione diventasse, almeno sul piano economico e delle prospettive di lavoro e di futuro, sempre più preoccupante. O fuggendo, i più dinamici, all’estero. È come se una crisi della fiducia avesse provocato una crisi della volontà, e ci si contentasse, i più, di diversivi che fungessero da tranquillanti. L’adesione, transitoria e rumorosa a questo o quel nuovo partitino ha illuso di uno svecchiamento della politica, di cui non cambiavano i modi anche quando un po’ di giovani sostituivano un po’ di vecchi, ma facendo le stesse cose. Gli antichi maestri ci parlarono spesso di “volontarismo etico”, base di ogni intervento serio volto ad abbattere le malformazioni di una società. Il volontarismo etico ha in sé, credo, qualcosa di religioso. Di volontarismo etico bisogna che si torni a parlare, aiutando i più giovani a capire i loro nuovi doveri e a individuare nuove pratiche per la difesa dei diritti, in alleanza con loro, degli oppressi, dei perseguitati, dei poveri, dei piccoli, e dei frastornati, dei raggirati, degli ingannati. In alleanza con loro.
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