sabato 16 aprile 2011
Perché la mia bocca è larga di riso / e la mia gola profonda di canto,
/ tu non credi che io soffra / trattenendo in me il mio dolore? / Perché i miei piedi sono gioia di danza, / tu non sai che io muoio!

Chi non ricorda lo straziante protagonista Calvero di Luci della ribalta di Charlie Chaplin (1952), emblema dolce e tenero dell'altruismo incarnato da questo vecchio artista londinese del varietà, che era stato preparato dall'amara solitudine del Charlot di un altro film, Il circo (1928), storia di un clown tenero e innamorato ma sconfitto? A questa costante parabola del pagliaccio, che fa ridere grandi e piccini mentre ha la morte nel cuore, rimandano anche i bei versi che ho tratto dalla poesia che s'intitola appunto Pagliaccio nero dell'americano Langston J. Hughes (1902-1967), un poeta divenuto l'interprete sensibile della cultura e dell'isolamento dei neri d'America.
Non c'è bisogno, però, di entrare in un circo o nel quartiere di Harlem, ove viveva Hughes, per scoprire - forse anche in noi stessi - la verità di queste parole. Quante volte siamo stati costretti a sorridere e a gettarci nella turba vociante di una festa, mentre dentro il cuore custodivamo il segreto di una prova, di un tradimento, di una perdita. Certo, lo spettacolo deve continuare, ma dietro i lustrini molti celano amarezze e solitudini, insoddisfazioni e fallimenti. Aveva ragione Metastasio quando, con versi più lievi, ripeteva: «Se a ciascun l'interno affanno / si leggesse in fronte scritto, / quanti mai, che invidia fanno, / ci farebbero pietà». Per questo è necessario evitare i giudizi affrettati, fondati sulle apparenze. È una verità che vale in tutti i sensi, come ammoniva Machiavelli nel Principe: «Ognun vede quel che tu pari, pochi sentono quel che tu sei».
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