domenica 3 giugno 2018
Quando la sua mano si posò sulla mia spalla non fui sorpreso: credevo che si trattasse di un topo. All'improvviso, da qualche settimana, migliaia di topi – a meno che non fossero arvicole – avevano invaso il villaggio. La proliferazione probabilmente era dovuta al “compimento” dei loro predatori abituali: da quando aveva raggiunto la perfezione della monografia e del memoriale, il coguaro nebuloso non poteva più mangiarseli. Si erano dunque abbattuti sulle case come le rane della seconda piaga d'Egitto e avevano cominciato a rosicchiare le provviste di cibo, come le cavallette dell'ottava: «Poco importa, dissero i Flumi, purché non attacchino i libri! E poi la carne del lemmiscus inornatus si può mangiare, sebbene sia molto insipida a confronto di quella delle specie che si estinguono…». Mi ero abituato a sentire ogni tanto un topo intrufolarmisi tra le caviglie o divertirsi sulla mia schiena. La cosa non mi infastidiva più di tanto. Lo cacciavo con la stessa indifferenza con cui si caccia una mosca. La redazione delle mie memorie mi assorbiva completamente. Il mio scultore ufficiale aveva finito il mio busto ed ero arrivato al passaggio decisivo dove uccidevo mio fratello. Mi restava solamente da scriverlo, pronunciare la mia condanna, supplicare Dio di perdonarmi di non chiedergli la grazia, e aspettare, aspettare che i Flumi decidessero la mia sorte, non avendo più la forza di continuare… Avevo provato a dir loro alcune parole del Vangelo, ma essi scuotevano gravemente la testa senza comprendere la mia contraddizione. Lumos, il loro dio, mi spiegavano, aveva illuminato i popoli stranieri con rivelazioni incomplete. Per essi, assassinare il proprio fratello, e cioè farne una vittima, diventare il custode della sua memoria e portare il rimorso come un sottile godimento, era la forma più compiuta della carità… No, veramente non avevo più la forza. Feci un gesto meccanico e le zampe si aggrapparono alla mia spalla, ma la pressione era troppo intelligente per corrispondere allo scalpiccio di un topo. Girai la testa, ma, prima di risalire fino al proprietario della mano che si era posata su di me, vidi un grosso cane biondo, del genere golden retriever. Si era seduto proprio accanto alla mia sedia, sulla destra, e nella sua bocca ilare, sotto il suo naso lucido, mi presentava un topo morto come una pallina con cui voleva che giocassimo. Sollevai infine lo sguardo. Quello che vidi me lo fece rivolgere di nuovo alla pagina che avevo appena scritto. Raccontavo di come avevo assassinato Ugo e di quanto fossi un mostro, un peccatore senza appello, a cui l'abolizione della pena di morte appariva come una crudeltà, tanto aspirava al sollievo di sentire infine la sua testa troppo pesante staccata dal corpo – e se fosse stato possibile fargli la gentilezza di strappargli il cuore… sarebbe stato bello. Pareva grande letteratura. Ma non valeva più niente. Ugo era lì. La sua mano sulla mia spalla. Guardai di nuovo il cane che mi tendeva il suo topo colpendo gioiosamente il suolo con la coda, e scoppiai in singhiozzi.
– Figurati, esordì Ugo con delicatezza, come se riprendessimo una conversazione interrotta poco prima, figurati che ho trovato delle spighe di grano in un erbario dei Flumi. Ce n'era in questa regione, prima che non lo facessero scomparire in una delle loro descrizioni complete. Ho potuto ricavarne abbastanza grano per un'ostia. E poi ho fatto del vino con quello che ho racimolato dalle viti silvestri che crescono un po' dappertutto. Sono chicchi molto acidi, ma andrà molto bene per il sangue di Cristo…
– E il cane?
– L'ultimo o il penultimo della sua razza… Avevano finito il grosso libro che lo glorifica. Erano quasi pronti a farlo allo spiedo sulla piazza delle feste. L'ho tirato fuori dalla sua gabbia, gli ho dato un po' di topi arrosto, e ora mi segue dovunque come il suo padrone… L'ho chiamato Ignazio…
– Ignazio! esclamai senza riuscire a non ridere in mezzo alle lacrime.
– Sì, fece Ugo partecipando della mia improvvisa allegria, è il solo cristiano che sono riuscito a fare.
Da tanto tempo non avevo pianto così. Da tanto tempo che non avevo riso così. E da ancor più tempo non avevo pianto dalle risate. Probabilmente dalla mia gioventù e dal noviziato. Era la prima volta del resto che con Ugo ridevo di cuore, come un bambino, e forse ero veramente diventato come un bambino davanti a quello che ancora qualche minuto prima ero certo di avere assassinato, era forse questo un assaggio del paradiso in ciò che c'è di più dolce e di più duro al tempo stesso: trovarsi di fronte a quelli a cui abbiamo fatto del male, quelli che avevamo provato a eliminare dalle nostre vite, e accettare che ormai la gioia possa accaderci solamente attraverso di loro… E chi sa se non ci saranno dei cani ad assistere alla scena - sollevare su di essa occhi abbastanza innocenti, e battere con la coda la misura di una felicità molto semplice, come divertirsi con un topo morto? Ignazio aveva finito per posare per terra il suo topo e aveva contemplato il nostro incontro tirando fuori la lingua, aspettando che tornassimo a occuparci di cose serie: lanciare una palla, preparare topi arrosto, fare una passeggiata, grattagli la parte posteriore della testa…
– Ho esplorato i dintorni, riprese Ugo dopo che c'eravamo un po' calmati. C'è una grande città a cinque giorni da qui. Sta su una montagna, forse su una frontiera. Alcune persone laggiù mi hanno parlato di una strada che porta fuori dalla Metagonia. Ecco perché sono ritornato a cercarti. E poi non volevo celebrare la messa senza di te…
– Bisognerebbe… bisognerebbe innanzitutto che mi confessassi… credevo, lo ammetto, di averla fatta finita con queste cose… il sacerdozio… la comunione… È tutto in queste pagine che ho scritto. Dopo di che, vedrai se puoi darmi l'assoluzione, e io li brucerò.
– Lascia che sia io a confessarmi per primo. Non penserai che non ne abbia bisogno almeno tanto quanto te. Il tuo naso me lo ricorda.
– Il mio naso?
– È storto, adesso. Sono io che te l'ho rotto
– Ah? Non me n'ero accorto!
Dovevo avere una vera faccia da tonto nello sbirciare quel naso che non conoscevo e che si trovava nel mezzo della mia faccia, perché ricominciammo una grande risata, molto sonora e molto stupida.
Non si spense progressivamente questa volta. Una domanda, l'appello in me di un'altra esultanza, più profonda, attraversò di colpo la nostra euforia.
– Allora è vero? Ci sono cose che cominciano dopo che è troppo tardi?
– Potrebbe proprio essere…
Il cane sentì le nostre due confessioni con i suoi due orecchi cadenti, poi si sdraiò durante la messa. Al momento dell'elevazione, si tirò su, credendo che stessimo per gettargli i una palla bianca. Quando si accorse del suo errore, si appiattì per terra, il muso tra le zampe, in una posizione molto edificante.
(39, continua. Traduzione di Ugo Moschella)
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