venerdì 24 luglio 2020
Mi è capitato di recente di scrivere una breve introduzione a un libro delle piccole edizioni salentine Kurumuny che un amico, Mirko Grasso, un giovane storico, ha dedicato a un suo parente che combatté in Russia e ne tornò dopo lunghe peregrinazioni, quelle in sostanza che narrò magistralmente il grande Nuto Revelli. Si intitola Era partito per fare la guerra... Mi capita ora di ricevere il libro di un altro amico, un solido intellettuale palermitano, Marcello Benfante, edito da un altro coraggioso piccolo editore stavolta siciliano, Qanat, che me lo ha richiamato alla memoria e che racconta di uno zio che è stato uno dei seicentomila soldati italiani lasciati alla mercé dei tedeschi dopo l'8 settembre del 1943, una storia che è stata troppo facilmente dimenticata o lasciata da parte a tutto vantaggio di quella resistenziale. Di recente un editore stavolta meno piccolo, minimum fax, ha ristampato le bellissime memorie di prigionia di Oreste Del Buono, Racconto d'inverno (lavoro forzato sulle Alpi per la Divisione Todt, di rincalzo all'armata tedesca) e per Del Buono come per l'autore di un terzo libro, altro piccolo classico uscito nell'immediato dopoguerra e riproposto da poco da un'altra piccola e nuova casa editrice stavolta romana, Abbot, Il mondo è una prigione di Guglielmo Petroni, i veri eroi di quegli anni non furono tanto i partigiani o i loro immediati nemici, quanto le migliaia, i milioni di senza nome che non avevano un fronte e una bandiera altra che quella della loro umanità e della loro sofferenza. Ho conosciuto sia Revelli che Del Buono e Petroni, e qualcosa dalle loro vicende credo di avere imparato, così come ho imparato da quelle di miei parenti che hanno vissuto negli stessi anni storie non diverse. Il piccolo e limpido libro di Benfante ragiona su tutto questo, sui dimenticati dalla storia, sugli attori-e-vittime “comuni” di cui gli storici si sono occupati meno del dovuto. Ma La visita (pagine 84, euro 12,00) è prima che un memoir su una persona conosciuta e amata, è il racconto di un sogno. Non parla in prima persona come Del Buono e Petroni e nasce dalla pietà di un nipote che riceve in sogno “la visita” di uno zio che non c'è più da tempo, e la interpreta come l'invito a ricordare, a ragionare, a far sapere. A rendere giustizia a uno per tanti, a uno dei milioni che hanno sofferto gli effetti di una guerra mondiale e di cui i libri di storia, la società tutta, hanno fatto in fretta a dimenticarsi. Denso e limpido, il racconto di Benfante parla di una persona per parlare di tante, per ricordarne tante; racconta e ragiona. E lo fa in un luogo come l'Italia dove la dimenticanza è, se si può dire, la forma di cultura più diffusa, un Paese che non ama ricordare i suoi torti e perfino i suoi meriti, quel che gli farebbe onore di ricordare; un Paese che non ama guardarsi allo specchio e giudicarsi.
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