Gli amici di Giobbe
venerdì 24 gennaio 2025
Il sorprendente libro di Giobbe parla poco della felicità. Parla molto, sì, della sventura, e perfino della disperazione: quella di Giobbe, uomo ricco e pio che perde tutto quel che aveva perché il diavolo e Dio hanno fatto una scommessa su di lui per verificare che la sua pietà non sia meramente interessata. Finito in rovina, prostrato dalla morte dei suoi figli, colpito da ulcere che non gli concedono requie, Giobbe non è dell’umore per dissertare sulla felicità. Preferisce condividere la desolazione in cui lo getta la sua inspiegabile disgrazia. Sono gli amici di Giobbe, dapprima venuti a consolarlo e che ben presto non sanno trattenersi dal fargli la lezione, che vogliono parlargli della felicità. Così, Elifaz di Teman crede utile buttargli lì questa beatitudine: «Beato l’uomo che è corretto da Dio: non sdegnare la correzione dell’Onnipotente» (Gb 5,17). Giustissimo: abbiamo già visto che il salmo 94 dice qualcosa di simile. Ma nelle parole dell’amico di Giobbe la beatitudine diventa atto di accusa: dice a Giobbe che è lui il responsabile della sua propria sventura, conseguenza delle sue colpe. Per salvaguardare le sue convinzioni religiose, non esita a sprofondare Giobbe nella sua miseria. Alla fine del libro, la risposta di Dio sarà senza appello: lui non ha bisogno di essere difeso, tanto meno da sistemi semplicistici che spiegano la sventura con il peccato. Ci sono discorsi sulla felicità che non vale la pena di tirar fuori dal silenzio. © riproduzione riservata
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