domenica 20 novembre 2005
Domandarono un giorno a rabbì Shelomo: «Qual è la peggiore azione suggerita dall'impulso cattivo?». Ed egli rispose: «Quando l'uomo dimentica di essere figlio del re». Più di una volta siamo ricorsi alle parabole e agli aforismi degli Ebrei mitteleuropei denominati Chassidim, ossia «i pii, i fedeli», sorti nel Settecento, le cui memorie sono state fatte conoscere dal filosofo Martin Buber (1878-1965). Oggi ascoltiamo la bella risposta che uno dei loro maestri aveva riservato a chi gli chiedeva una definizione del peccato grave. Peccare è abdicare alla dignità di «figlio del re» che ogni creatura possiede sulla base dell'incarico di vicerè assegnato da Dio all'uomo sulla terra: «Dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente che striscia sul terreno" Hai fatto l'uomo poco meno di un dio, di gloria e di onore lo hai coronato, gli hai dato potere sulle opere delle tue mani, tutto hai posto sotto i suoi piedi» (Genesi 1, 28; Salmo 8, 6-7). Quella regalità divina che i popoli circostanti a Israele riservavano solo ai sovrani è, invece, estesa dalla Bibbia all'intera umanità. Purtroppo essa non di rado esercita questa sovranità in modo cieco e tirannico, devastando il mondo e disprezzando la dignità regale dei propri fratelli. Anzi, talvolta l'uomo si abbrutisce nel vizio e nella vergogna, divenendo schiavo delle sue passioni, precipitando nelle bassezze più infami. È per questo che oggi la liturgia ci invita a fissare lo sguardo in Cristo re, il sovrano giusto e perfetto dell'universo, a camminare sulla sua via in cui la dignità regale si esprime non col dominio oppressivo ma col servire, il donarsi e l'amare.
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