Faulkner si confessa nelle interviste: Sono un poeta mancato
venerdì 27 giugno 2014
Leggere
le dieci interviste a Faulkner pubblicate dalle Edizioni Medusa con il titolo Il gioco dell’apprendista mi ha fatto tornare adolescente.
Ho riaperto libri che da anni se ne stavano chiusi in un ripiano alto di una
delle mie librerie: Santuario, L’urlo e il furore, Mentre morivo, Luce d’agosto. Dai sedici ai vent’anni Faulkner è stato uno dei miei
scrittori preferiti, quelli che, dopo Shakespeare e i grandi russi dell’Ottocento,
hanno incarnato per me l’idea di letteratura: Hemingway, Fitzgerald, Camus,
Eliot, Lorca. È grazie a William Faulkner che capii la possibilità di scrivere
romanzi completamente diversi da quelli che procedono secondo una trama e uno
sviluppo comprensibile. Leggere Faulkner significava perdersi e non capire, eppure
trovarsi di fronte a evidenze che si imponevano di per sé come la vita stessa,
sempre presente nel suo caos incorreggibile e suggestivo. Pensavo che semmai
avessi scritto un romanzo l’avrei scritto così. Faulkner era il narratore più vicino
alla poesia, per esempio alle lunghe e rapsodiche poesie di Eliot, la cui
musica contiene un malcelato, riaffiorante tessuto narrativo. Il fascino
maggiore di questo Faulkner intervistato è nella sua modestia e concretezza.
Dice sempre quello che ha letto o non ha letto. Il suo rapporto con Joyce, di
cui sembrò un continuatore diretto, è stato molto semplice: l’Ulisse non lo aveva mai letto, ne
aveva solo sentito parlare e gli era bastato questo per esserne influenzato. I
suoi libri, dice, sono nati e cresciuti spontaneamente, hanno preso a poco a poco
la loro forma, quella che serviva per procedere e per dire più verità
possibile, senza seguire piani né progetti prestabiliti. Alla domanda «Legge
molto?» Faulkner risponde: «Nessun romanzo moderno da molti anni. Ora sto
leggendo Moby
Dick». Riporto solo qualche
altra risposta: «Bisogna sempre trovare il tempo per scrivere [...]. Non
aspettare. Quando hai un’ispirazione buttala giù in fretta. Prima la butti giù,
più forte è l’immagine». Il miglior allenamento per scrivere è «leggere,
leggere, leggere di tutto – robaccia, classici, buoni e cattivi, e vedere come
funzionano». «La mia prosa è in realtà poesia». «Sono un poeta fallito». «In
America lo scrittore non è parte della cultura del Paese. È come un bel cane.
Alla gente piace averlo intorno, ma non serve a niente.
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