Evangelizziamo la “Metagonia”
domenica 10 settembre 2017

Prende oggi il via una nuova rubrica di Fabrice Hadjadj, uno degli intellettuali cattolici più noti in Francia e molto pubblicato anche in Italia. Quest'anno Hadjadj porterà i lettori di “Avvenire” in “Viaggio in Metagonia”, ovvero in un romanzo (di appendice) a puntate sull'evangelizzazione di terre difficili.

I. Invio

All'inizio, quando il nostro superiore Padre Gesualdo mi convocò per parlarmi della Metagonia, credetti stesse scherzando. Possibile che esistessero territori inesplorati e non ancora conquistati dal Vecchio Mondo o dal Nuovo? Restava dunque un'estremità della terra dove mai nessun missionario aveva posato il piede? La nostra epoca non aveva forse cartografato ogni millimetro quadro di ogni remoto angolo del globo, perlomeno attraverso l'occhio indiscreto di droni e satelliti? E però, inspiegabilmente, al di là della cordigliera delle Ande, nascosto fino ad ora alle nostre sonde e alle nostre imprese commerciali, questo territorio esisteva e io fui mandato laggiù. L'evangelizzazione è il carisma profondo della nostra congregazione, quella dei Ritrovamentisti. Fondata sul mistero del Ritrovamento di Nostro Signore nel Tempio, vale a dire su quell'episodio del vangelo dove Gesù fanciullo sfugge alla vigilanza di Maria e Giuseppe per essere finalmente ritrovato tra i dottori della Legge, la congregazione ha la vocazione di inviare missionari in quelle zone estremamente difficili, indurite da un'ignoranza più crassa di quella delle lande più selvagge, giacché vi si crede di sapere tutto su Gesù Cristo e di avere regolato definitivamente la questione – sto parlando delle Università, delle Accademie e perfino di certi Seminari diocesani… Partire in Metagonia, in un paese vergine, era dunque una missione nuova e al tempo stesso esaltante. Non mi sembra necessario stare a spiegare le circostanze pastorali che condussero la nostra congregazione a occuparsi di quella regione: la casualità degli incontri, la penuria di preti e i capricci dell'episcopato avevano fatto la loro parte. La cosa essenziale, attraverso tutte queste contingenze, è che la provvidenza aveva scelto me, proprio me, per essere come i primi apostoli, quelli che sbarcarono per la prima volta in India, in Africa o in America. Sì, io, stavo per essere il pioniere del Verbo fatto carne! Sarei andato davanti a popolazioni che mai avevano sentito parlare di Gesù, come Paolo a Listra o Tommaso nel Kerala! Avrei piantato il crocifisso in mezzo ai villaggi, edificato chiese, battezzato folle felici di apprendere la Buona Novella della loro Salvezza! (Avevamo letto in refettorio la vita di san Francesco Saverio). Oppure, se l'Eterno avesse voluto farmi la grazia, sarei stato martire! (Avevamo letto anche quella di sant'Isacco Jogues). Dico "io", ma si trattava in verità di me e di Fra' Ugo, e questo moderava di molto la mia esultanza e poteva farmi trovare la provvidenza un po' meno provvidenziale. Fra' Ugo mi sempre era stato francamente antipatico, fatta salva la carità, certamente. Di origine piuttosto proletaria, non aveva nessun senso della poesia e si accontentava di una teologia rudimentale, al limite dell'ortodossia, credendo compensare la sua grossolanità con una devozione quasi esclusiva alla Madonna; mi sembrava più una palla piede che un aiuto. Suggerii a Padre Gesualdo di preferirgli un frate a cui mi sentivo più vicino e con il quale sarei stato certamente più efficace. Ma il nostro superiore non volle sentir ragioni. Le sue narici addirittura fremettero di collera quando pronunciai la parola "efficacia": «Hai meditato a sufficienza», mi replicò seccamente, «sulla ragione che spinse Nostro Signore a mandare i discepoli due a due e, nello stesso tempo, a dichiarare che colui che vuole seguirlo deve prendere la sua croce? Mi resi conto abbastanza in fretta che i miei sentimenti a riguardo di Fra' Ugo erano perfettamente ricambiati. Accolse l'annuncio del nostro invio congiunto con un'aria completamente rassegnata. La sua mano si strinse al suo rosario (un attrezzo enorme in cui talvolta inciampava) e i suoi occhi mi lanciarono un sguardo piuttosto sdegnato (che, lo ammetto, rispondeva probabilmente al mio). Ero per lui un piccolo pedante altezzoso a cui questa missione lontano dalle università avrebbe finalmente insegnato un po' la vita. Ciò non bastò a spegnere il mio entusiasmo. Mi dicevo che la Metagonia si trovava forse meno lontano da me di questo fratello della mia propria congregazione.
(Traduzione di Ugo Moschella)

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