sabato 8 aprile 2017
L'americana Judith Butler è la nota pioniera della performatività di genere.
Secondo la vulgata butleriana - pochi si sono misurati con la sua prosa non agevole - l'individuo assoluto deve potere decidere tutto di se stesso, in totale libertà, a cominciare dal genere a cui intende o non intende appartenere.
Ma se fai davvero la fatica di leggere Butler trovi ben altro. A partire dall'idea di individuo, che lei pensa immediatamente in relazione e dipendente dall'altro.
Dall'ultimo libro "L'alleanza dei corpi" (Nottetempo, 2017):
«Il corpo è immesso nella vita sociale in condizioni di ineliminabile dipendenza, cioè in quanto essere dipendente».
«La libertà è qualcosa che nasce tra noi… un legame senza il quale non ci sarebbe nessuna libertà».
«Il corpo è meno un'entità che un insieme di relazioni viventi».
«In quanto corpo, io non sono soltanto per me stessa, e nemmeno principalmente per me stessa». E così via.
L'unità di misura non è l'uno, ma l'almeno-due. Qualunque cosa io faccia di me e del mio corpo riguarderà almeno un altro.
Idem sulla performatività di genere: «La mia definizione diede adito a due interpretazioni contrastanti: per la prima, ciascuno si sceglie il proprio genere; per la seconda, siamo tutti completamente determinati dalle norme di genere… Qualcosa non era stato abbastanza ben spiegato e compreso». E quindi?
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