Digitale, cultura e il compito della scuola
venerdì 26 giugno 2020
Un cinquantenne amico di famiglia ci racconta desolato che la sua quindicenne nipote passa la maggiore parte del suo tempo davanti al computer tenendo in mano e controllando, contemporaneamente, lo smartphone acceso. Naturalmente la ragazza va anche a scuola. Mi chiedo come faranno gli insegnanti a penetrare la corazza “selfista” e “infocentrica” di adolescenti di questo tipo. Di solito quando si parla di riforme socialmente benefiche e progressivo–produttive, uomini politici o parapolitici non mancano di proclamare l’urgenza di “digitalizzare” questo e quello. È chiaro che c’è più da guadagnare che da perdere quando si meccanicizzano attività di per sé meccanicamente ripetitive. Digitalizzare va bene per molte operazioni burocratiche che ci affliggono. Va bene per le informazioni spicciole di uso immediato e per l’elaborazione quantitativa di dati. Va molto meno bene quando si tratta di idee, valori, processi conoscitivi complessi fondati su esperienze reali e dirette: esperienze individualizzate, percezioni stabili e durevoli da approfondire memorizzandole di testa propria. In questi casi, più che di velocità c’è bisogno di approfondimento. La scuola sta diventando sempre di più un problema cruciale da qui al futuro. La trasmissione del sapere è una delle pratiche sociali più complesse e fondamentali. Ma a questo punto non bisogna neppure illudersi sulla bontà della “scuola di una volta”. Anche in passato la scuola raramente era buona. Inoltre bisogna sempre fare i conti con il presente. Tutti i tipi di cultura tradizionale o moderna vanno rinnovati nel contatto con il presente. Fare scuola è una cosa che va reinventata giorno dopo giorno e con gli studenti reali, non ideali, che si hanno di fronte. Anche in passato la scuola tendeva a burocratizzare tempi e modi dell’apprendimento. I bravi e veri insegnanti sono sempre stati pochi. Dei cinque o sei che avevo al liceo, solo due mi hanno davvero insegnato qualcosa: quello di letteratura italiana e latina (un “comunista di destra” che non ci parlò mai di politica) e quello di religione (un gesuita da cui sentii nominare per la prima volta Sartre e Le Corbusier). È però anche vero che molte altre cose, negli stessi anni, me le sono insegnate da solo, leggendo libri così appassionanti che spesso mi rendevano più difficile la quotidiana preparazione scolastica. Il buon insegnante insegna anche un metodo di studio e deve far immaginare e desiderare ai ragazzi un modo di essere adulti. Infine, fra le tante cose, ce n’è una che dovrebbe preoccupare di più: dai tredici ai venticinque anni, quindi anche all’università, non si leggono più libri interi, ma in prevalenza fotocopie di capitoli di libri scolastici. Se a quell’età non si leggono integralmente almeno una decina di opere fondamentali letterarie e saggistiche, non si saprà mai che cos’è cultura. Sono gli insegnanti che devono mostrare agli studenti di averle lette e amate.
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