sabato 7 gennaio 2006
Siamo debitori e non proprietari di quello che abbiamo perché siamo, prima di tutto, debitori di quello che siamo.È una studentessa di Genova a inviarmi questa riflessione lapidaria desunta dall"opera Il granello di sabbia (Sansoni 1959) del grande giurista Francesco Carnelutti. Il tema è profondamente cristiano perché si lega al concetto di grazia che è «in principio» alla nostra stessa esistenza. È famosa la variazione introdotta dal teologo Karl Barth all"asserto cartesiano Cogito, ergo sum, «penso, quindi sono»: Cogitor, ergo sum, «sono pensato (da Dio), quindi sono». Alla radice del nostro essere ed esistere, vivere e operare c"è una scelta e un atto divino, una parola che ci ha chiamato. Non siamo, allora, proprietari ma debitori, come suggerisce Carnelutti.Questa considerazione sulla trascendenza della vita ha una sua attualità nei giorni in cui viviamo, così inclini alla tentazione di prevaricare su questa realtà ritenendola campo libero per ogni incursione, quasi fosse solo una questione biologica o fisica. Affermato con vigore questa dimensione "religiosa" della vita (e intendiamo l"aggettivo nel senso più largo del termine), esaltata la grazia divina che ci precede, dichiarata l"indisponibilità della persona a ogni manipolazione, dobbiamo però riconoscere che la vita è anche un compito affidato alle nostre mani. Come dicono i tedeschi, è Gabe, «dono», ma anche Aufgabe, «impegno». Ciò che siamo lo dobbiamo al Creatore, ma ciò che diventiamo lo dobbiamo anche alle scelte della nostra libertà, alla sollecitudine della nostra applicazione, alla nostra solerzia. Il talento ricevuto non deve essere sepolto nel fondo oscuro dell"inerzia e della noncuranza negligente.
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