venerdì 14 ottobre 2005
Elizabeth Fry odiava la pena capitale e, nonostante che l'assistere a un'esecuzione capitale le logorasse i nervi, ogni volta rimaneva a pregare con le donne condannate a morte nel carcere di Newgate, fino al momento dell'esecuzione. I prigionieri erano, allora, condannati a morte anche solo per aver rubato somme modeste o per qualche contraffazione. Lei li faceva sedere deliberatamente davanti a sé, ai primi posti nelle riunioni di preghiera.In un libro sulle "donne dimenticate della Chiesa d'Inghilterra" (R. Symonds, Far above rubies, del 1993) leggo questa memoria di un'apostola dei carcerati e dei senzatetto, l'anglicana Elizabeth Fry, morta nel 1845 a 65 anni, dopo una vita dedicata alla cura degli ultimi e alla riforma dei sistemi carcerari, una realtà che ancor oggi non si può dire sia compiuta. Al di là dell'orrore della pena di morte, purtroppo tuttora praticata con pertinacia da molti stati tra i più diversi per tipologia politica (si va dalla Cina agli Stati Uniti), c'è un aspetto molto evangelico nel modo con cui Elizabeth si accostava a quegli sventurati.Non solo condivideva quelle terribili ore d'attesa pregando coi condannati, ma nelle assemblee oranti che venivano celebrate nelle carceri, «faceva sedere deliberatamente davanti a sé» questi infelici, uomini e donne. Era proprio il segno vivo della proclamazione di Cristo: sono gli ultimi, i pubblicani, le prostitute e i peccatori ad essere i primi nel Regno di Dio, mentre quelli che si ritengono perfetti e inappuntabili ne vengono estromessi. Ai veri amici di Gesù, gente dal cuore semplice, vittime della storia, umiliati e offesi, dovremmo riservare quel rispetto e l'amore che il mondo ha loro sempre negato. Si legga oggi, in un momento di quiete, il cap. 2 della Lettera di Giacomo.
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