sabato 28 marzo 2020
L'immagine del Papa che, in uno scenario quasi da day after, cammina in una via del Corso deserta, è di quelle che passeranno sicuramente alla storia, come quelle di ieri sera in piazza San Pietro. Era la metà di marzo, e Francesco – dopo aver pregato davanti all'icona di Maria Salus populi romani a Santa Maria Maggiore – si stava recando, come in pellegrinaggio, nella chiesa di San Marcello, dove si trova il crocifisso che nel 1552 fu portato in processione per i quartieri di Roma perché finisse la grande peste.
Nel tempo della pandemia, i gesti di papa Bergoglio hanno dato – secondo quello che abbiamo imparato essere il suo stile – una forza ulteriore alle sue parole in questo momento tanto difficile. Perché la preghiera è importante. Fondamentale. La preghiera vera è una forza inarrestabile, certi da un lato che «in un modo o nell'altro – ha detto una volta nel 2017 Francesco – Dio esaudirà le richieste di chi ha fede», e dall'altro che «le pretese di logiche mondane non decollano verso il cielo, così come restano inascoltate le richieste autoreferenziali». È partito da qui, da questa imprescindibile concezione della preghiera – non un formulario da recitare a memoria nella logica più o meno scoperta di una sorta di do ut des, ma invocazione fiduciosa al Padre –, l'invito che il Papa ha rivolto a tutti i cristiani, di tutte le confessioni, a «unire le voci verso il cielo» mercoledì a mezzogiorno per recitare tutti insieme il Padre Nostro; e a ritrovarsi ieri alle 18 per seguire attraverso Internet e la televisione il momento di preghiera da lui presieduto sul sagrato di piazza San Pietro, vuoto di fedeli, con la speciale benedizione Urbi et Orbi. Per «rispondere alla pandemia – mentre l'umanità trema» – con «l'universalità della preghiera, della compassione, della tenerezza».
Nessuno sa, ovviamente, quanti siano stati mercoledì i cristiani che hanno levato con una sola voce la preghiera al Padre. Così come nessuno sa né probabilmente saprà mai, al di là dei milioni di persone che ieri sera hanno seguito la diretta televisiva, quanti effettivamente in tutto il mondo si siano collegati col sagrato deserto di San Pietro. Ma non è poi così importante saperlo, perché la preghiera non è mai neppure una prova di forza; essere in tanti è solo importante perché, come Gesù ha detto, «se due di voi sopra la terra si accorderanno per domandare qualunque cosa il Padre mio che è nei cieli ve la concederà. Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro».
Poi, certo, la pandemia passerà. Prima o poi. E non mancherà chi dirà, ci si può scommettere, che la preghiera non ha avuto nessun ruolo nella fine dell'emergenza, che è tutta una questione di meccanismi epidemiologici, eccetera eccetera. E qualcuno andrà oltre, irridendo e bollando come superstizione le iniziative del Papa, e ogni intenzione di preghiera. Perché un conto è la Chiesa che aiuta i poveri, la Chiesa “sociale”, ma la preghiera... Eppure chi crede sa benissimo che le cose non stanno così. Che la fede è un'altra cosa.
Nel gennaio del 1993, tornando ad Assisi con i leader religiosi islamici ed ebrei per pregare per la pace in Europa minacciata dal conflitto nei Balcani, Giovanni Paolo II ricordò il precedente di sette anni prima, e disse: «Come allora ci affidammo al Signore della storia, il quale ci ha dato dei segni, anche tangibili, di averci ascoltato, ci affidiamo oggi, ancora una volta, alla sua misericordia, certi di essere ascoltati». La stessa fiducia che Francesco ha scandito nella frase citata prima. È questa certezza a sorreggere i credenti. Perché, ha aggiunto papa Bergoglio domenica scorsa, i «prodigi» che Gesù «compie non sono gesti spettacolari, ma hanno lo scopo di condurre alla fede attraverso un cammino di trasformazione interiore». Restiamo aperti a questa trasformazione. Pregando. Sempre.
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