venerdì 20 settembre 2019
È recente (e benvenuta, insolita e inattesa) pubblicazione presso La nave di Teseo di un saggio di critica cinematografica del dopoguerra, all'origine una tesi di laurea sul Realismo nell'arte cinematografica discussa a Milano col filosofo Antonio Banfi da un giovane reduce che i tedeschi avevano fatto prigioniero in Albania, Ugo Casiraghi. E rallegra chi di cinema (e della sua storia, e dei suoi maestri) continua a occuparsi nonostante la perdita di aura dell'arte più nuova e fondamentale del '900. Rientrato in Italia, Casiraghi ebbe anche la sorpresa di veder pubblicati dai suoi amici gli scritti giovanili, Umanità di Stroheim e altri saggi, e vide presto pubblicata anche la tesi, una lettura tuttora convincente, che segue la crescita di un rapporto cinema-realtà sempre più forte, ed esplosivo in quel tempo col fenomeno del neorealismo. Un critico importante di quegli anni, suo amico, fu Glauco Viazzi (armeno italianizzato, Jusik Achrafian). Anche lui comunista, deluso da tutto dopo il XX Congresso cessò drasticamente di scrivere di cinema... Di Casiraghi ricordo un tremendo articolo degli anni '50 in cui scriveva di aver visto Ciapaiev decine e decine di volte trovandoci sempre nuovi motivi di interesse (era una specie di western sovietico degli anni di Stalin, in cui il giovane eroe rivoluzionario “spontaneista” era affiancato da un “commissario politico” messogli a fianco dal Partito). Poi anche lui si “sciolse dal Giuramento” (si chiamò così l'autocritica collettiva di molti critici, coraggiosamente aperta dal giovane Paolo Gobetti su Cinema nuovo), e tornò a essere una persona simpatica e generosa e un critico solido e competente.
Se segnalo la sua tesi di laurea non è solo per ragioni affettive ma per constatare l'inesorabile decadenza e quasi morte, oggi, della critica cinematografica come di altri rami della critica. I suoi ultimi fuochi sono degli anni '70 e '80, ma nel delirio di una generazione (assai presente nei giornali comunisti) che esaltò come un formidabile segno progresso anche il peggio del cinema Usa di quegli anni: viva il progresso e la merce capitalista, insomma. Casiraghi era un uomo d'altra tempra, e se fece errori non li fece certo per inseguire le sirene del capitale. La critica ha ancora un senso, o è morta davvero? Ha un senso, ne sono persuaso, nell'ottica di una ricerca vicina a quella dei registi più coraggiosi e non del servilismo verso le merci imposte da un sistema che propone mero e ottuso divertimento. Il ruolo del critico, ha scritto Serge Daney, deve «scrivere una lettera al pubblico perché la legga il regista» (o lo scrittore etc.). È il terzo e indispensabile polo di un “trialogo” vivo e necessario.
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