mercoledì 5 ottobre 2011
L'uomo che sa vivere a corte domina i suoi gesti, gli sguardi e il volto. Si mostra impenetrabile, sorride ai nemici, controlla il temperamento, maschera le passioni, smentisce il suo cuore, parla e agisce contro i suoi stessi sentimenti. Tutto questo intenso esercizio altro non è che un vizio che si chiama «falsità».

Per capire queste righe parliamo un po' del loro autore, un personaggio del Seicento francese che appare in questo nostro spazio non certo per la prima volta. Si chiamava Jean de La Bruyère ed era un medio borghese assunto come precettore del duca di Borbone. Fu in quell'ambiente aristocratico, molto artefatto e ipocrita, che egli raccolse il materiale umano per comporre i suoi Caratteri (1688), una galleria di figure e figuri che incarnavano comportamenti e vizi, soprattutto delle alte classi. Abbiamo scelto questo schizzo delizioso del cortigiano, una vera e propria maschera, pronto a far calare la visiera su pensieri, sentimenti ed emozioni personali. Alla fine tutto converge verso un profilo morale, quello che senza titubanze lo scrittore chiama «falsità».
Le corti ora sono sempre più rare, ma resistono ancora questi esemplari di doppiezza un po' in tutti gli ambienti, anche in quelli ecclesiastici. È pur vero che ora - anche nell'alta società - impera il cosiddetto cafonal che è apparentemente il contrario dello stile descritto da La Bruyère, con la sguaiataggine e la volgarità erette a vessillo. Tuttavia, il metodo è sempre lo stesso: ostentare una faccia artificiosa per avere successo. Successo? Forse non è proprio così, nonostante qualche comparsata televisiva e l'apparizione su squallidi rotocalchi di gossip. Concludeva, infatti, il nostro autore con una nota realistica: «Questa falsità è talora altrettanto inutile al cortigiano (per sua fortuna!) quanto la franchezza, la sincerità e la virtù».
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