Giochi da bendati e libri in Braille per capire il compagno cieco
domenica 5 maggio 2019

A Bedizzole, in provincia di Brescia, c’è l’istituto comprensivo Manzoni, dove un’insegnante ha tentato un esperimento didatticamente utile. C’è un alunno non vedente, e come tale aveva difficoltà, anzi impossibilità, a mettersi in relazione con i compagni, insomma se ne stava sempre isolato.

C’eran compagni che 'volevano' legare con lui, ma si trovavano bloccati da questa sua separatezza. Un’insegnante ha avuto un’idea geniale, ma dirla geniale è sbagliato, perché non viene dall'intelligenza, ma dalla sensibilità: ha capito che la classe non formava una unità perché c’era questo alunno che aveva una diversità di cui gli altri non sapevano nulla. Bisognava realizzare una forma di comprensione. Bisognava che tutti provassero cosa vuol dire non vedere. Parlare senza vedere chi t’ascolta. Ascoltare senza vedere chi ti parla. I nostri rapporti di comunicazione, di noi uomini del mondo d’affari e soprattutto noi del mondo della scuola, realizzano la comprensione perché si basano sul vedere e sulla coscienza di essere visti.

Anche quando scriviamo articoli o libri. Scriviamo libri perché vediamo, i nostri libri sono letti da lettori che li vedono. Da vari decenni però abbiamo - grandissima conquista - anche lettori che non vedono, e che dunque non leggono i nostri libri con gli occhi, ma con i polpastrelli. I libri per i ciechi sono stampati in rilievo, in Italia c’è una casa editrice apposta a Monza, la Biblioteca per i Ciechi, e in Francia a Parigi, Éditions pour le Bien des Aveugles.

Credo che abbiano dei diritti speciali, e in primo luogo quello di stampare i libri che vogliono, senza pagare l’autore. Lo deduco dal fatto che ho dei libri stampati per i ciechi e per les aveugles, ma non ho mai ricevuto nessun contratto, e lo trovo giusto. L’idea dell’insegnante che è riuscita a includere il ragazzo non vedente nella sua classe è molto semplice: se il ragazzo non s’includeva perché gli altri non sapevano cosa vuol dire non vedere, proviamo a farlo capire a loro, a farli vivere la vita senza vedere. Per esempio, bendiamoli. Introduciamo i giochi bendati. È stata una rivoluzione.

Muovendosi senza vedere, i bambini hanno sentito il bisogno di leggere senza vedere, e cioè d’imparare l’alfabeto Braille. La classe è diventata 'una', unitaria. Non essere 'una', avere bambini incomunicanti, è un problema che riguarda soltanto le classi con non vedenti? No di certo. In tutte le scuole ci sono bambini di diversa estrazione sociale, diversa civiltà, diversa lingua, e per loro parlarsi è un problema, e anche vedersi, prendere atto della reciproca esistenza.

I bambini di città non vedono i bambini di periferia e di campagna, e viceversa. Gli europei non vedono gli africani, e viceversa. Sono mondi diversi, hanno occhi diversi. Sempre stato così. Io venivo dalla campagna, e al primo dettato della maestra mi bloccai di fronte alla parola 'stuzzicadenti'. Non avevo mai visto gli stuzzicadenti, ignoravo la loro esistenza, che senso ha stuzzicarsi i denti?

Alla fine, dopo lunghi ragionamenti, mi parve saggio scrivere 'struzzi cadenti'. Forse gli struzzi dormono sui trespoli, e addormentandosi cadono giù. Chissà. Presi un bruttissimo voto. Ma aveva mai provato, la maestra, a portare i suoi alunni cittadini in campagna? A vivere per mezza giornata come vivevo io? Alle elementari le prime settimane di scuola andrebbero spese così, a unificare la classe. Spartire le esperienze. Se c’è un bambino che non si collega agli altri perché non ci vede, collegare gli altri a lui, facendogli provare cosa vuol dire non vedere. Cambiano come studenti. Anzi, come uomini.

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