martedì 20 ottobre 2015
Il dibattito sulla legge e la necessità di una mediazione. ​Ampliare il campo del non profit, aprirsi al mercato o difendere un’identità?
Molti i nodi da sciogliere. (Andrea Di Turi)
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Portare a casa la riforma è l’obiettivo condiviso dalla larga maggioranza del mondo non profit fin da quando il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, nella primavera dello scorso anno annunciò che il governo avrebbe avviato una riforma organica del Terzo settore. Accompagnando l’annuncio con affermazioni importanti come quella, divenuta celebre, secondo cui «il Terzo settore è in realtà il primo». Sulla legge Delega per la Riforma del Terzo settore, presentata alla Camera ad agosto 2014, i deputati hanno lavorato con discreta rapidità. E a metà aprile di quest’anno i dieci articoli del testo sono approdati in Senato. Dove però sono iniziati i problemi. Come il continuo slittamento dei termini per la presentazione degli emendamenti in commissione Affari Costituzionali. Soprattutto, però, è stata la mole e il contenuto dei quasi 700 emendamenti presentati al Senato a destare molte perplessità, sia all’interno del Pd, che della riforma è stato il motore (sono del Pd i relatori della Delega alla Camera e al Senato), sia nel vasto settore del non profit. Tanto che si è incominciato a pensare, o temere, che sul testo uscito dalla Camera non vi fosse la condivisione che si credeva o auspicava all’inizio, e che si dovesse ripartire daccapo a discutere su alcuni punti nodali della riforma: la definizione di impresa sociale, se questa sia da considerare o meno un ente di Terzo settore, se sia opportuno ampliare gli ambiti in cui può operare rispetto a quelli previsti dall’attuale disciplina sull’impresa sociale (D.Lgs. 155/2006). E poi, ancora, i limiti alla remunerazione del capitale delle imprese sociali e l’utilizzo del concetto di impatto sociale per qualificare l’impresa sociale.   La discussione sulla riforma ha così ripreso quota nei principali appuntamenti di settore. Come al Workshop sull’Impresa sociale di Riva del Garda, dove il professor Carlo Borzaga, presidente di Iris Network (la rete degli istituti di ricerca sull’impresa sociale, che promuoveva l’evento), ha definito quello sull’impresa sociale come un «dibattito senza memoria» e ha chiarito il perimetro entro il quale la riforma a suo avviso dovrebbe muoversi: «L’impresa sociale – ha detto Borzaga – è sempre stata caratterizzata sia per quello che è, cioè per i limiti cui è sottoposta quanto a obiettivi, vincolo alla destinazione degli utili e governance inclusiva, sia per quello che fa, cioè le attività di utilità sociale che può svolgere. Allentare i vincoli, rendere l’impatto sociale misurabile elemento distintivo dell’impresa sociale, quasi piegandola alle ragioni della finanza, apre al rischio di comportamenti opportunistici». Sempre a Riva del Garda è andato in scena una sorta di primo confronto, dopo la presentazione degli emendamenti in Senato, tra il senatore Stefano Lepri, relatore della legge Delega e autore di alcuni degli emendamenti che hanno fatto più discutere, e il sottosegretario al Welfare, Luigi Bobba. «Il testo approvato alla Camera – ha spiegato Lepri – è già molto buono e innovativo rispetto alla 155/2006. Ma ci sono margini di ambiguità da chiarire, ad esempio su quali sono al di là della cooperazione sociale gli spazi per l’impresa sociale, che dev’essere senza equivoci ricompresa nel Terzo settore. L’impatto sociale, poi, va di certo valorizzato ma non può essere considerato l’obiettivo principale dell’impresa sociale, semmai ne è l’esito. Quanto alla remunerazione del capitale, è ragionevole prevederla in misura modesta o low profit, ma non possiamo mettere l’impresa sociale a rischio di essere considerata una quasi profit, aprendo a regole capitalistiche».   Altrettanto chiara la posizione di Luigi Bobba, su posizioni differenti. «Uno degli obiettivi della legge – ha ricordato l’ex-presidente delle Acli – è liberare campo nuovo per l’imprenditoria sociale, definendo il perimetro del Terzo settore in modo chiaro ma anche ampio, da precisare poi naturalmente nei decreti delegati. Si vogliono creare le condizioni per liberare il potenziale delle quasi 85mila organizzazioni non profit market oriented già esistenti (contro 12.570 cooperative sociali, ndr). È una sfida e come tale ha bisogno di nuovi imprenditori sociali pronti ad affrontarla». Augurandosi che la discussione sulla riforma riprenda in Senato il prima possibile, Bobba è tornato sul tema anche alle Giornate di Bertinoro per l’Economia civile, invitando i cooperatori sociali a «non avere paura del cambiamento, altrimenti sono condannati a restare residuali. I nuovi attori di cui c’è bisogno possono venire dalla cooperazione sociale ma anche da altri campi: traguardare il patrimonio delle imprese sociali verso nuove sfide è una delle ambizioni della riforma». Sempre a Bertinoro i promotori di Aiccon (il centro studi dell’Università di Bologna sull’economia sociale) hanno presentato un volume sulla misurazione e valutazione dell’impatto sociale, uno degli argomenti più discussi della riforma Su cui nell’occasione si è espresso l’economista Stefano Zamagni, già presidente dell’Agenzia per le Onlus. «La necessità di soffermarsi sul tema dell’impatto sociale generato dalle imprese sociali – ha dichiarato Zamagni – nasce dalla fase di passaggio che il Terzo settore italiano sta attraversando, legata alla transizione da welfare state a welfare society. Qui occorre che le imprese sociali giochino d’anticipo, proponendo metriche di misurazione dell’impatto sociale che tengano conto della loro identità e specificità. Se non ci si muoverà per tempo, altri passeranno avanti. Del resto, la misurazione d’impatto sociale è in linea con le politiche basate sull’evidenza dei dati raccolti attraverso sperimentazioni che si sono affermate a livello internazionale».  A sostenere la necessità di approfondire la questione dell’impatto sociale, cruciale nell’impianto della riforma, è anche Marco Morganti, amministratore delegato di Banca Prossima, l’istituto di credito di Intesa Sanpaolo dedicato alle organizzazioni del Terzo settore, laiche e religiose. Il quale, però, oltre a giudicare «sconfortante» la valanga di emendamenti presentati al Senato, esprime riserve importanti sulla riforma: «Manca un lavoro coerente sulla defiscalizzazione per le imprese sociali, un tema che dovrebbe essere al centro mentre è passato in secondo piano rispetto a quello della remunerazione del capitale. Solo che gli investimenti in organizzazioni non profit sono ancora molto poco praticati: occorre riflettere sul perché. Sono molto preoccupato, poi, dall’ipotesi di stimolare questi investimenti con l’assenza di un asset lock (clausola che assicura che le risorse di una organizzazione non profit siano sempre utilizzate, nel tempo, a beneficio della comunità e non per guadagni personali, ndr), perché ciò può generare comportamenti opportunistici». Le posizioni in campo sembrano alla fine oscillare fra due poli. Non antitetici, tuttavia distanti. Da un lato c’è chi ritiene che un’eccessiva apertura a strumenti, modelli, forme giuridiche, culture, fonti e canali di finanziamento 'altri' rispetto a quelli su cui il Terzo settore ha fin qui basato il suo sviluppo, rappresenti un rischio non necessariamente da correre. Perché potrebbe alla lunga snaturare ciò che il non profit ha rappresentato fino a oggi in termini di alternativa al modello economico tuttora dominante nonostante la crisi.   Dall’altro, non nascondendo i margini di rischio che in effetti esistono, c’è invece chi ritiene che l’apertura, la contaminazione (reciproca), l’ibridazione, siano una strada da percorrere, tenendo comunque gli occhi aperti, non facendo sconti sugli obiettivi ultimi.  Per almeno due motivi. Primo, perché il progressivo arretramento del welfare state richiederà un grande balzo di scala nella capacità di servire i bisogni. E dunque si tratterà di ragionare su come incanalare verso finalità d’interesse generale le risorse finanziarie a impatto (impact investment), altrimenti definite 'capitali pazienti', che a livello mondiale si prevede possano raggiungere i 500 miliardi di dollari nel entro il 2020. Secondo motivo: se il non profit non saprà occupare gli spazi che si stanno aprendo in settori nuovi (beni comuni, cultura, ambiente, energia, rigenerazione urbana, sharing economy), vorrà dire rassegnarsi a giocare un ruolo ancillare, lasciando il campo al 'profit' e alle sue logiche. In questo dibattito non banale c’è un punto su cui tutti convergono. A sottolinearlo è ancora Luigi Bobba: «Potremo anche fare la legge più bella del mondo, ma se mancano gli attori non accadrà nulla: la legge può solo accompagnare, facilitare la costruzione di un ecosistema». La riforma, insomma, come tassello nell’obiettivo di fare dell’impresa e dell’economia sociale il paradigma di un modello di sviluppo più inclusivo, sostenibile, equo.
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