Una non-decisione ineccepibile e assai deludente
mercoledì 28 novembre 2018

La Cedu chiude senza sentenza il caso «Berlusconi vs Italia» Stavolta non è nemmeno un topolino quello partorito dalla ... montagna, pardon, dalla “Grande Camera”, la Grande Chambre, che rappresenta il più alto tra i livelli ai quali opera la Corte europea dei diritti dell’uomo. È, sostanzialmente, un nulla di fatto.

La Corte ha insomma deciso di non decidere sul merito del ricorso presentato nel 2013 da Silvio Berlusconi contro l’applicazione della “legge Severino” che a seguito della condanna penale da lui subìta per frode fiscale ne aveva comportato l’espulsione dal Senato e l’interdizione temporanea dalla possibilità di candidarsi a elezioni politiche. Per chi conosce i meccanismi della giustizia europea questa sorta di lavarsi le mani non giunge inaspettata e, sotto il profilo strettamente giuridico, può dirsi assolutamente ineccepibile.

Nel luglio scorso, lo stesso Berlusconi, tramite i suoi avvocati, aveva infatti chiesto di cancellare la causa dai ruoli di Strasburgo, non avendo più interesse a mantenere in vita il suo ricorso dopo che il tempo trascorso e la conseguente riabilitazione ottenuta in Italia avevano tolto ogni possibile effetto tangibile a un’eventuale pronuncia a lui favorevole: né essa avrebbe potuto ridargli il seggio in un Parlamento ormai scaduto o la candidatura a elezioni già celebrate, né era più necessaria per restituirgli il diritto di candidarsi a nuove elezioni, di cui è già tornato pienamente a godere.

Così, di fronte a quell’iniziativa, i giudici si sono limitati ad applicare una norma di un testo basilare (l’art. 37 § 1 lett. a della Convenzione europea dei diritti dell’uomo) che li autorizza appunto a disporre una “radiazione dal ruolo” in accoglimento dell’esplicita volontà del ricorrente. Qualche considerazione ulteriore non è peraltro inopportuna, a cominciare dall’attenzione per un particolare che potrebbe anche passare inosservato: la decisione strasburghese non è stata adottata all’unanimità ed è il dispositivo stesso a palesare un voto a maggioranza.

E verosimilmente ciò si spiega perché nella specie i giudici avevano anche un’altra possibilità, oltre a quella che la maggior parte di loro ha ritenuto di assumere, ma da cui qualcuno deve avere dissentito: lo stesso art. 37 § 1 della citata Convenzione consente infatti la prosecuzione del giudizio di merito, nonostante il ritiro del ricorso, «se lo esige il rispetto dei diritti garantiti dalla Convenzione» medesima; formula, questa, piuttosto generica, la quale può tuttavia essere impiegata laddove siano in gioco questioni che vanno oltre gli interessi specificamente coinvolti nella singola vicenda. Stando a ciò che si legge nella decisione di cui si tratta, non sarebbe stato questo il caso: punto e basta.

Eppure, per cinque anni, certi temi agitati nella causa in maniera in parte inedita erano apparsi, e non soltanto per il pubblico italiano, di indiscutibile importanza: a cominciare da quello sulla natura delle sanzioni applicate all’ex Presidente del Consiglio, da cui poteva dipendere l’applicabilità o meno dei princìpi riassunti nel nullum crimen nulla poena sine praevia lege poenali ... Né il confronto, davanti all’opinione pubblica, si era esaurito nella stanca ripetizione di una recita a copione fisso con parti prestabilite tra politici berlusconiani e antiberlusconiani: giuristi autorevoli avevano dato argomentati contributi, da una parte e dall’altra, ma anche da posizioni del tutto indipendenti, sollevando profili di interesse davvero generale. Lascia dunque l’amaro in bocca la (non) decisione odierna.

E non solo perché ci si può domandare se la Corte europea – tanto attenta, e giustamente, a bacchettare gli Stati quando violano il principio della ragionevole durata dei processi – non avrebbe potuto cercare di esprimersi un po’ prima, ossia quando erano ancora in ballo interessi concreti alla risoluzione della controversia di specie in quanto tale.

Ma qualche domanda viene spontanea pure in altre direzioni, e una di esse riguarda proprio Silvio Berlusconi (senza che con ciò si metta in discussione il diritto suo e dei suoi difensori, come di chiunque, di impostare strategie e tattiche processuali nel modo da loro ritenuto migliore): dov’è finita la sicurezza, tante volte ostentata durante questi cinque anni, sull’assoluta inevitabilità di una sentenza di Strasburgo che gli avrebbe dato ragione su tutta la linea? Intendiamoci: si può capire che a suo tempo abbia influito anche un giustificato desiderio di reagire agli eccessi ai quali parecchi degli avversari si erano spinti, fino a fare dei suoi guai giudiziari l’argomento principale delle battaglie politiche contro la sua formazione.

Ma perché, se c’era quella sicurezza, non andare giudiziariamente fino alla fine fisiologica di un processo in sede internazionale, intentato con grande clamore? Non sarebbe certamente stata la Corte a poterlo impedire. Infine. È altresì un peccato che le opposte ragioni di chi riteneva legittimi e giustificati i provvedimenti a suo tempo presi a carico del leader di Forza Italia non abbiano potuto esplicarsi a loro volta fino in fondo.

Impossibilitati a farsi sentire, davanti alla Corte europea, i contraddittori più naturali (a cominciare dalla rappresentanza parlamentare che a suo tempo ne aveva decretato l’allontanamento dal Senato) è venuta a mancare, in definitiva, anche la voce del Governo: poco dopo l’annuncio del ritiro del ricorso, il nuovo Esecutivo aveva fatto pervenire il suo rimettersi alla decisione che la Corte avrebbe adottato. Soltanto fair play?

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