sabato 25 gennaio 2014
​I nodi irrisolti (e forse irrisolvibili) della protesta. Ue incerta, Paese diviso.
di Fulvio Scaglione
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C'era una volta l’Ucraina, il Paese dove le gente era disposta a soffrire, combattere e anche morire pur di entrare nell’Unione Europea… A noi occidentali, europeisti stanchi e disillusi, la favola costruita intorno ai tumulti di Kiev piace molto, è inevitabile. Ma chi può crederci? Chi può davvero pensare che la mancata adesione al trattato di associazione alla Ue, in cambio peraltro di un trattato con la Russia che di fatto regala 12 miliardi di euro alle casse dell’Ucraina (che non sarà mai in grado di restituirli) e uno sconto del 30% sulle proprie forniture di gas e petrolio (pari quasi al cento per cento del fabbisogno energetico ucraino) basti a innescare un simile conflitto? Anche le leggi liberticide, oggi al centro delle polemiche anche internazionali, sono arrivate dopo due ondate di manifestazioni e hanno, semmai, rivitalizzato la protesta. Certo non l’hanno generata.Se leggessimo più attentamente i colori della protesta, vedremmo che l’ansia di avvicinarsi a Bruxelles ha come propellente decisivo l’antico desiderio di allontanarsi da Mosca. Non a caso la punta di lancia, nell’organizzazione e nella gestione della piazza, la fanno i militanti di Svoboda, il movimento della destra nazionalista che incarna, lei sì "europea" come oggi sono i vari Le Pen, Wilders e Farage che tutti temono vincenti alle elezioni Ue di maggio, un nazionalismo incapace di mediazioni. Nulla di sorprendente in un Paese dove i sovietici sterminarono milioni di persone con le carestie dei primi anni Trenta, colonizzando poi il "granaio d’Europa" (che da solo provvedeva a un quarto della produzione agricola dell’Urss) con la solita campagna di russificazione. Gli ucraini lo chiamano "holodomor", che alla lettera vuol dire "morte per fame" ma suona per loro come "olocausto". Il risultato è un Paese diviso, addirittura geograficamente diviso. A Est del Dnepr, la grande via d’acqua che collega il Baltico al Mar Nero, c’è l’Ucraina russofona, russofila e di stampo russo (ovvero, sovietico riformato) anche nella struttura economica: miniere, quel ch’è rimasto dell’industria pesante, manifatture. A Ovest, maggioritaria nei numeri, la parte che guarda all’Europa, che ha ripreso con orgoglio a parlare ucraino, che lavora nei servizi e in un agricoltura sempre più moderna. Il vero elemento unificante, almeno finora, è anche il più controverso: la dipendenza economica da Mosca. Al di là dei 1.576 chilometri di confine terrestre, c’è una Russia che per l’Ucraina vale il 20-22% sia nell’import sia nell’export e, come si diceva, la quasi totalità delle forniture energetiche. È chiaro che la prospettiva europea rappresenta l’alternativa tanto attesa. Soprattutto, ovvio, agli occhi degli ucraini che sperano di collegarsi alle reti europee dei servizi o di approfittare della generosa politica agricola dell’Unione. Su questa realtà interna si inseriscono, con effetti finora disastrosi, le manovre esterne. L’Unione Europea si è schierata con l’opposizione all’attuale regime prima ancora che Janukovic voltasse la schiena a Bruxelles per tornare all’ovile russo. Porre come condizione per la firma del trattato la liberazione di un politico come Julia Timoshenko, considerata "prigioniera politica" ma prima del carcere sconfessata dagli ucraini in libere elezioni, poteva essere solo un clamoroso infortunio diplomatico o il modo per spingere Kiev a rifiutare le forche caudine della sovranità limitata e della sconfessione internazionale, come in effetti è avvenuto. Il dubbio è legittimo perché le trattative tra Ue e Ucraina sono andate avanti per almeno dieci anni, essendo partite prima ancora della cosiddetta Rivoluzione Arancione del 2004, e hanno destato la perplessità di molti autorevoli rappresentanti della Ue, per esempio Olli Rehn, commissario per gli Affari economici e monetari. Bisognerebbe anche capire se la Ue, cui i problemi non mancano, sarebbe in grado di sostenere l’impegno per l’integrazione dell’Ucraina che, nel 2008 e nel 2010, ha contrattato con il Fondo monetario internazionale aiuti per oltre 30 miliardi di dollari. Come se questo non bastasse, si muovono sulla scena altri due giganti che hanno agende opposte. Gli Usa soffiano sulla protesta nella speranza che l’Ucraina possa in futuro diventare una seconda Polonia, cioè un altro importante anello della catena destinata a contenere le rinnovate ambizioni della Russia di Vladimir Putin. Ucraina e Polonia hanno 430 chilometri di confine in comune, la barriera geografica, diplomatica e psicologica sarebbe imponente. La Russia, ovviamente, ha l’interesse opposto: l’Ucraina ha con la già fidelizzata Bielorussia quasi 900 chilometri di confine, l’affaccio russo sull’Europa occidentale può diventare importante. Anche perché il Cremlino a Est deve già fare i conti con l’intraprendenza e la potenza della Cina, che si sta infiltrando in Asia Centrale: se Mosca si lasciasse sbarrare la strada anche verso Occidente, la morsa potrebbe diventare difficile da reggere. I morti di Kiev, e l’organizzazione ormai para-militare della protesta, aprono ora due sole prospettive. La più lontana, ma anche la più temibile, è l’allargamento dello scontro fino a rendere plausibile una spaccatura vera, concreta, delle due parti del Paese. Questa spirale può essere interrotta solo dall’altra ipotesi, e cioè accettare il fatto che il futuro dell’Ucraina non può essere affidato solo ai risultati del braccio di ferro tra un governo ormai screditato e fallito e una piazza dominata dalle pulsioni più radicali. Serve un tavolo a cui deve inevitabilmente sedere pure la Russia. Per capirlo è sufficiente considerare anche solo la questione energetica: al Cremlino basterebbe chiudere i rubinetti di gas, petrolio e combustibile nucleare per bloccare ogni forma di vita economica in Ucraina. E nessun altro Paese, o coalizione di Paesi, è in grado di sopperire. E la questione ucraina è diventata così grave e acuta anche perché sono tuttora irrisolti i rapporti tra la Ue e la Russia, in campo energetico (dove i singoli Paesi, come Italia e Germania, si sono affrettati a stipulare con il Cremlino importanti e convenienti accordi individuali), ma non solo.  Così l’Ucraina, invece di diventare un terreno d’incontro, è diventato un terreno di scontro, un campo di battaglia. Viktor Janukovic, tipico prodotto dell’Ucraina russofila, per ora resta in sella e non v’è segno di fratture nelle forze di polizia e di sicurezza che si battono contro i dimostranti. Sacrificherà i suoi uomini al governo per dare qualche soddisfazione alla piazza, sperando nel frattempo che l’aiuto di Mosca, con l’argine politico internazionale e il soccorso economico, lo aiuti a superare la tempesta. Il che ovviamente servirà solo a rimandare il problema e a renderlo ancor più acuto. La parola deve tornare alla politica. Prima ciò avverrà, meglio sarà per gli ucraini.
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