Tre poli, ma solo due nell'assalto alle poltrone
domenica 10 febbraio 2019

Il gioco giornalistico sulla durata dell’attuale governo rischia di mettere in secondo piano qualcosa di più profondo, che invece emerge in modo evidente dalla forte accelerazione che M5s e Lega hanno impresso alla partita delle nomine nei posti-chiave del potere istituzionale, economico e finanziario del Paese. Nel mentre si guarda il dito (se, quando, perché e come ci sarà un’eventuali crisi...) si perde di vista la luna: i vicepremier Di Maio e Salvini hanno siglato un patto molto più profondo del 'contratto' cui costantemente si richiamano, un patto che indica il mutuo riconoscersi come le forze politiche destinate a guidare il Paese nei prossimi anni.

Un 'Patto del Nazareno del cambiamento', se si volesse lavorare d’ironia. Più seriamente, invece, è bene comprendere - oltre la cronaca dei fatti spiccioli - che i leader di Lega ed M5s, ora al governo insieme, immaginano il ciclo politico che si è aperto il 4 marzo 2018 come un 'nuovo bipolarismo' nell’era del tripolarismo imperfetto. La durata dell’attuale esecutivo è un tema importante, certo. Ma più importante è capire che, alleati o no, Salvini e Di Maio hanno trovato una profonda intesa sull’impegno per non far rientrare in campo nessuno dei protagonisti della fase precedente, da Berlusconi a Renzi, dal moderatismo europopolare alla sinistra (in versione riformista o neoradicale).

I due leader possono litigare su singoli dossier, ma giocheranno sempre di sponda nel mettere al bando i 'volti' e le idee del vecchio bipolarismo, che loro vogliono superare in tutto e per tutto. Sarebbe perciò illusorio, da parte sia di Forza Italia sia delle varie anime del Pd, avere come principale e quasi unica strategia l’attesa di un «incidente» che li riporti in scena. La velocità furiosa con cui i due azionisti del governo stanno andando all’attacco dei posti chiave delle istituzioni pubbliche e delle autorità indipendenti, sino ai vertici di Bankitalia, è infatti sintomatico di un progetto politico che va oltre questo breve scorcio di fine decennio. Come accaduto anche per Consob, non conta tanto avere pronto un piano alternativo o di aver già disponibili persone e competenze (dalle dimissioni 'volontarie' dell’ex presidente Mario Nava alla sofferta indicazione di Paola Savona sono passati quasi quattro mesi), ma creare spazi, sloggiare da posti e poltrone.

E presentare questa operazione come una sorta di «bonifica». Perché poi una soluzione si troverà, e si troverà dentro un unico perimetro, quello che Lega ed M5s stanno costruendo per conservare stabilmente la maggioranza dei consensi che legittima, questa la tesi, l’assalto a quei Palazzi - certo non esenti da errori, colpe e responsabilità - dove gli eccessi del potere politico e delle logiche del consenso trovano storicamente un argine oggettivo, neutrale, si direbbe quasi di buon senso. Lungo questo sentiero di riflessione, lo sguardo si allunga e si interroga su cosa accadrà nel gennaio 2022, quando scadrà il mandato settennale del presidente della Repubblica Sergio Mattarella e il Parlamento dovrà compiere la scelta più importante, la nomina del nuovo capo dello Stato. Per questo motivo il tema della durata dell’esecutivo e delle mine che potrebbero farlo saltare rischia di essere sovrastimato. In qualsiasi scenario, Salvini e Di Maio si immaginano sia nel breve sia nel medio termine come il baricentro ineludibile che muove le pedine lungo l’intero terreno di gioco.

Ecco forse il grande errore delle opposizioni: credere di trovarsi dentro una confusa e stordente parentesi, senza comprendere fino in fondo che la focosa spartizione avviata dai capi di due dei tre poli italiani è un piano, magari caotico e bizzoso ma non ingenuo, per 'smontare il sistema' e reindirizzare in profondità gli assetti culturali, sociali e ed economico- finanziari del Paese.

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