Tra Tripoli e Parigi
domenica 27 maggio 2018

A sette anni dalla caduta della Jamairiya e di quel regime che con pochissime luci e molte ombre aveva garantito alla Libia stabilità per oltre un quarantennio, il mondo assiste fra lassismo e impotenza al caos di un Paese lacerato e diviso, geograficamente fratturato dalla rivalità di due regioni – la Cirenaica e la Tripolitania – mai realmente assimilatesi fra loro se non per l’anarchia tribale e le tante, troppe, milizie e consorterie in perenne lotta tra loro. Le stesse che spadroneggiano in quella terza grande area, il Fezzan, ridotto a una sorta di Somaliland, una "terra di nessuno" dove il traffico di ogni possibile merce, dalle armi alla droga, dagli organi umani fino alle vite stesse di uomini e donne e bambini migranti fa parte dell’attività quotidiana.

Solo con deplorevole intermittenza sale alla ribalta delle cronache il disumano trattamento ricevuto da coloro che attraverso la rotta libica cercano una via di salvezza in l’Europa: giusto tre giorni fa – come questo giornale ha documentato con dolente tempestività – il tentativo di fuga di un gruppo di etiopi, somali ed eritrei che tentavano di salvarsi dai propri carcerieri (nient’altro che ripugnanti sensali che vendono, scambiano e mettono all’asta interi lotti di profughi) si è risolto in un bagno di sangue. Tutti sanno che nei lager libici si consuma ogni sorta di vilipendio alla dignità umana, e il tema va di pari passo con l’irrisolto problema della sovranità: chi comanda in Libia? Il generale Khalifa Haftar, ras della Cirenaica, amico degli egiziani e sapientemente adulato da Mosca o Fayez al-Serraj, presidente del Consiglio presidenziale e premier riconosciuto ufficialmente dalle Nazioni Unite, ma di fatto segregato in una base della Marina vicino a Tripoli in quanto la sua presenza nella capitale viene ritenuta ad alto rischio?

Una risposta certa non c’è, in compenso al capezzale della Libia, grande malata del Mediterraneo, si organizzano strategie e soprattutto si muovono appetiti assai poco convergenti. Su tutti svetta – c’era da dubitarne? – l’iperattivismo francese. Martedì prossimo Emmanuel Macron ha convocato i due rivali a Parigi per la firma di una bozza di accordo che prevede elezioni entro l’anno, la stesura di una legge elettorale, un referendum sulla Costituzione, l’unificazione dell’esercito, dei poteri, delle sedi e della banca centrale. Una macronnerie (irriverente gioco di parole per indicare una maldestra smargiassata) come l’hanno definita gli oppositori del presidente, ma anche ennesima dimostrazione di potenza con cui la Francia non resiste alla tentazione di piazzare il proprio cappello napoleonico sugli affari libici.

Non una novità, del resto: cominciò a farlo Sarkozy (che scatenò unilateralmente la 'guerra di liberazione' del 2011), ha proseguito Hollande, persegue con continuità e tenacia lo stesso obiettivo anche Macron. In gioco, non solo gli interessi (legittimi) della Total-Fina, ma anche una sorta di patronato francese sull’ex «scatolone di sabbia» (l’epiteto lo coniò l’anticolonialista Gaetano Salvemini alla vigilia dell’intervento italiano del 1911), divenuto successivamente – scherzi della storia e del sottosuolo – il più ricco forziere di greggio e di gas naturale d’Africa. Accanto a Macron ci saranno l’inviato dell’Onu per la Libia Ghassan Salamè e i rappresentanti di Algeria, Ciad, Cina, Egitto, Germania, Marocco, Niger, Qatar, Russia, Sudan, Tunisia, Turchia, Regno Unito, Emirati Arabi Uniti, Stati Uniti, Unione africana, Unione Europea e Lega araba. E Italia, naturalmente.

Ma l’Italia, lasciatecelo dire, ha o meglio dovrebbe continuare ad avere una voce in capitolo e un ruolo assai più forte e decisivo, considerato anche il manifesto disinteresse della nuova amministrazione americana e la discontinua presenza dei plenipotenziari del Palazzo di Vetro. A nostro sfavore gioca purtroppo la forzata assenza – causa latitanza del governo non ancora in carica e il congedo di quello in uscita – di una politica e di una presenza diplomatica in grado di contribuire al futuro della Libia e anche di negoziare i termini della nostra partecipazione. Un vuoto effettivo che un giorno potremmo pagare molto caro, e non solo in puri termini economico-energetici, ma anche e soprattutto nel civile ridisegno e governo delle politiche migratorie. Siamo amici della Francia, questo è certo, ma lasciare l’intero rebus libico nelle sole mani di Parigi non ci pare affatto la migliore delle strategie. E il tempo stringe.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI