Tra Navalny e Putin è un derby «patriottico»
sabato 6 febbraio 2021

A dispetto dell’aura quasi devozionale che da lungo tempo la avvolge, la figura di Aleksei Navalny è un crogiuolo di contraddizioni. Ma dopo il maldestro tentativo di avvelenamento e il successivo arresto una volta rientrato in patria è sempre più difficile separare il suo carisma, il suo humour caustico, la sua lunga battaglia contro la corruzione nella Federazione Russa dalla complessa personalità dell’uomo e soprattutto dal suo passato. A cominciare – come svelò il 'New York Times' nel dicembre 2011 – dalla sua visione fortemente nazionalista dalle scoperte venature razziste e xenofobe. A un raduno di skinheads e di gruppi neonazisti vicini al controverso leader Zhirinovsky e all’Rnsp, il Partito nazionale socialista russo, paragonò pubblicamente i guerriglieri caucasici agli scarafaggi per via della loro pelle scura e i georgiani ai ratti di fogna. In un’altra occasione – l’annuale Marcia Russa del 4 novembre che allineava movimenti anti-immigrazione, formazioni antisemite e nostalgici del fascismo – caldeggiò l’uso staliniano della deportazione di massa come ricetta 'non-violenta' per risolvere il problema dell’immigrazione clandestina: «Non occorre picchiare nessuno – disse –, è sufficiente allontanare inflessibilmente e deportare chi ci crea dei fastidi, chi inquina l’autentica radice russa». Per queste sue ribadite posizioni venne espulso da Yabloko, il raggruppamento liberale in cui militava anche il campione di scacchi Garry Kasparov, ma ormai Navalny, siamo attorno al 2010, cominciava a giocare in proprio. Dietro di sé ha un partito, Rossija Buscevo (Russia del futuro), e obiettivo della sua azione politica sono la corruzione dilagante, le frodi sistematiche negli appalti pubblici e soprattutto quel cerchio magico di oligarchi arricchitisi con il collasso dell’Unione Sovietica che – vantaggiosamente ricambiati – nutrono, puntellano e spalleggiano Vladimir Putin. Che, come tutti sappiamo, è il bersaglio principale di Navalny. Il loro è un duello che con il tempo ha finito per assumere un epos e i connotati di un regolamento di conti fra due distinte categorie di titani: l’immobile inquilino del Cremlino e il mobilissimo Masaniello delle piazze, soprattutto virtuali. Il primo, arroccato nella difesa a oltranza della propria popolarità in declino; il secondo, proiettato dal destino che egli stesso si è fabbricato verso lo scontro finale con il potere che sistematicamente lo intralcia (Navalny – già studente a Yale – al pari dell’esule Mikhail Khodorkovskij non potrà mai candidarsi a prendere il posto di Putin in quanto possessore di permessi di residenza all’estero), lo mette ai ceppi, lo accusa di varie maramalderie, fino ad avvelenarlo con il Novichok in una gaglioffa sequenza di misteri (ultimo in ordine di tempo: la morte misteriosa del medico che gli prestò i primi soccorsi dopo l’atterraggio all’aeroporto di Omsk).

Crogiuolo di contraddizioni, si è detto. E non c’è soltanto il passato (e diciamo pure anche il presente) di Aleksei Navalny a confermarlo, ma la radice stessa delle proteste che a seguito del suo fermo si sono scatenate in tutta la Russia. Le centinaia di cittadini arrestati in questi giorni sono scese in piazza per protestare contro le élite, contro gli oligarchi, contro il proposito di Putin di perpetrare a vita il proprio potere, contro la brutalità del regime, contro la corruzione e, certamente, contro le accuse del tutto capziose nei confronti di Navalny.

Ma – come acutamente hanno notato l’analista del Carnegie Moscow Center Aleksandr Baunov e la giornalista Anna Zafesova – non si tratta necessariamente di proteste di intonazione filooccidentale, liberale, democratica. «Questa è una faccenda essenzialmente russa – si è scritto da più parti – dove due patriottismi assolutamente simili si fanno la guerra». Ed è questo il punto, forse. Il patriottismo, che secondo Putin «è l’unica possibile ideologia in Russia» e al contempo è il collante con cui ha costruito il proprio consenso, che fino a tre anni fa arrivava a sfiorare il 70% della popolazione. Un consenso che poggiava sul ponte gettato fra l’orgoglio nazionale recuperato con l’annessione della Crimea, la guerriglia nel Donbass, la sfida costante alla Nato, l’aggressiva penetrazione nei mercati del Terzo mondo e l’aggancio riuscito con la fede ortodossa, che settant’anni di ateismo di Stato non avevano sostanzialmente scalfito.

Patriottismo, parola magica che affonda nel passato ('Grande Guerra Patriottica' è la locuzione con cui in Russia si denomina la Seconda guerra mondiale) e riaffiora nel presente. Lo stesso spirito che anima Aleksei Navalny. E che per questo, solo per questo, non per la mobilitazione delle coscienze occidentali o le manifestazioni di piazza, rende Navalny l’unico vero mortale avversario di Vladimir Putin. Soprattutto perché con questo suo nazionalismo patriottico (i due termini in parte semanticamente si sovrappongono) è in grado di scavalcarlo da destra. La destra 'patriottica' da cui Navalny proviene.

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