venerdì 7 febbraio 2014
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In questi giorni il tema delle delocalizzazioni è stato al centro del dibattito e ha reso ancora più chiare le difficoltà macroeconomiche nelle quali ci dibattiamo. Non si tratta solo di delocalizzazioni produttive come quelle di Electrolux, ma anche di delocalizzazioni "fiscali" come quelle della Fiat che tra Olanda, Regno Unito, Irlanda e Lussemburgo non ha che l’imbarazzo della scelta nel selezionare dal menù delle differenze fiscali il Paese più conveniente nel quale contabilizzare i propri profitti.Se poi guardiamo al costo medio del lavoro ufficiale, non siamo affatto competitivi rispetto ai molti paesi "poveri" ed "emergenti" che ormai garantiscono infrastrutture adeguate per lo stabilimento di impianti produttivi; e nemmeno verso quei paesi che grazie a debiti pubblici non elevati sono in grado senza troppi problemi di offrire incentivi pubblici e molte altre condizioni di favore a chi decide di investire da loro.Prendiamo i frigoriferi. Produrli in Turchia costa fino a 8 volte in meno rispetto all’Italia. Mentre in Germania i salari ufficiali sono più elevati dei nostri (45,7 dollari l’ora il salario lordo manifatturiero contro i 34,18 dollari l’ora dell’Italia). Come è possibile? Il fatto è che la competitività, nel caso tedesco, non riguarda tanto i salari, ma è garantita dalla maggior efficienza del sistema-Paese (costo energia, efficienza della giustizia e della burocrazia, ecc.) e dall’affidabilità/flessibilità della forza lavoro. Un altro fattore di svantaggio è il nostro cuneo fiscale, che crea uno dei gap maggiori tra il salario percepito dai lavoratori e quello che le aziende pagano, inclusi gli oneri sociali.Globalizzazione e unione monetaria (senza mutualizzazione dei debiti e armonizzazione fiscale) ci hanno messo in grave difficoltà precludendo l’accesso ai due tradizionali "fattori" di competitività rappresentati dal basso costo del lavoro e dalle svalutazioni. Ci siamo legati le mani (precludendoci la competitività di cambio) con dei partner con i quali non c’è stato contemporaneamente progresso in materia di mutualizzazione e armonizzazione fiscale. Abbiamo cioè scommesso sulla nostra capacità di farcela comunque, anche con un contesto di partenza così difficile (visto il nostro elevato debito pubblico), mentre in realtà fino ad ora la scommessa è stata pagata molto cara. Ovvero con delocalizzazioni, desertificazione industriale (soprattutto nel Mezzogiorno) e con il ricorso all’ultima ratio della svalutazione salariale.Quella parte di sistema industriale che ha raggiunto la massa critica per accedere ai mercati esteri (i sistemi distrettuali e le multinazionali medio-grandi) è sopravvissuto bene, ma sempre delocalizzando parte della produzione. Lo sforzo sopportato dall’Italia (contenimento della spesa, perdita di produzione interna, svalutazione dei salari, disoccupazione) ha prodotto un crollo della domanda interna che rischia di farci pericolosamente avvitare su noi stessi nonostante le flebo di liquidità fornite dalla Bce. E lo scenario per i prossimi anni non appare incoraggiante: con le aspettative di inflazione nell’Eurozona inchiodate all’1% sarà un’impresa eroica rispettare nel 2015 i parametri del Fiscal Compact, che richiedeno almeno una crescita nominale del 3%.Non ci resta che fare i nostri compiti a casa cercando di migliorare il sistema-Paese per attrarre anche capitali esteri, mentre i nostri imprenditori puntano su fattori competitivi non delocalizzabili, cercando di incorporare il genius loci dei territori in beni e servizi, su segmenti innovativi e di alta qualità tecnologica e sul "petrolio italiano" che rende il nostro Paese la "penisola del tesoro" dal punto di vista di arte, cultura, natura. Mentre facciamo il nostro dovere dobbiamo però lavorare per modificare il contesto continentale e internazionale. Politiche fiscali e monetarie più espansive sono fondamentali per l’Eurozona se si vuole rilanciare la domanda interna e salvare l’euro. Nel contesto più ampio della globalizzazione è indifferibile una riflessione su clausole sociali e ambientali del commercio, per evitare che il libero scambio si trasformi in una corsa al ribasso su diritti e ambiente, invece di uno strumento di promozione dell’unione tra i popoli e del bene comune.
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