Testimone e guida
venerdì 9 settembre 2022

Il primo fu Winston Churchill, l’ultima – una manciata di ore fa – Liz Truss. In tutto quindici premier, dal corrusco aristocratico nato nel 1874 che guidò il Paese negli anni bui della guerra alla nuova lady di Downing Street, nata esattamente un secolo dopo l’uomo amante dei sigari e del brandy che nel 1940 aveva promesso «Blood, Toil, Tears and Sweat» (sangue, fatica, lacrime e sudore): più o meno il compito che spetterà ora alla neopremier del Regno Unito post-Brexit succeduta a Boris Johnson.

Tante, forse troppe cose ha visto Elisabetta nei 96 anni della sua vita terrena e nei suoi settant’anni di regno, da quel 6 febbraio del 1952 in cui venne chiamata in tutta fretta a prendere il posto del padre, il principe Albert poi divenuto Giorgio VI dopo l’abdicazione del fratello Edoardo (con l’incoronazione ufficiale avvenuta poi il 2 giugno del 1953). Un secolo intero è sfilato davanti ai suoi occhi, da quando giovanetta si faceva chiamare Lilibet a quando è divenuta Sua Maestà.

Un secolo di ferro, con due guerre mondiali, un vorticoso cambiamento dell’ordinato mondo che la Belle Époque sembrava promettere e garantire senza fine a tutta l’Europa, una grande rivoluzione come quella bolscevica poi degenerata nella dittatura sovietica, e poi i bombardieri tedeschi che colpiscono il cuore di Londra e annientano città intere come Coventry, il crollo del Terzo Reich, la Germania divisa in due, la Cortina di Ferro, la faticosa rinascita economica e sociale di un Regno – il suo – improvvisamente decaduto dal rango di prima potenza mondiale a quello di cugino povero della nuova superpotenza americana, ma capace di una sfida vincente alla modernità, lasciando intatta la tradizione e aprendo la porta alla novità, alla rivoluzione dei costumi, ai Beatles, ai giovani, senza mai compromettere la democrazia.

Tutto ha visto Elisabetta e tutto, o quasi, ha evitato di giudicare. Ligia a un protocollo che si era imposta fin dal momento dell’incoronazione: tacere. E tante, troppe cose ha taciuto, o forse ha solo sussurrato ai suoi primi ministri. Tante, troppe volte ha chiuso gli occhi sulle malefatte di un Paese che dal colonialismo che adornava di rosa la carta geografica del mondo faceva fatica a uscire: dall’India, da Suez, dal Medio Oriente, dove in condominio con i francesi era stata sventatamente disegnata con semplici tratti di righello la mappa di Siria, Libano, Giordania, Iraq, Palestina.

Ma erano tutte cose che Elisabetta aveva ereditato. Come una non dissimulabile preferenza per i tories, i conservatori, meglio se 'compassionevoli'. I laburisti come Harold Wilson la incuriosivano e ne rispettava le scelte, sapendo peraltro che fra di essi si annidavano non pochi repubblicani, che avrebbero fatto volentieri rotolar via la corona dalla testa dei Windsor, quasi come Cromwell e il Parlamento avevano fatto tout court con la testa di Carlo I Stuart. Di sicuro uno dei premier non riscosse mai la simpatia di Elisabetta.

Era Margaret Thatcher, della quale la sovrana un po’ subì un po’ sopportò il reaganismo rampante e assai poco compassionevole (la crasi fra il presidente americano e la sua dottrina economica prese il nome di reaganomics), che si propose di tagliare le tasse ai ricchi e di lasciare in ossequio ad Adam Smith mano libera assoluta al mercato. Con il risultato di privatizzare ogni cosa, sottraendo allo Stato quasi tutto e lasciandogli soltanto la Union Jack e, appunto, la sua Regina. Elisabetta tirò un sospiro di sollievo quando una macchinazione interna ai tories (loro fanno sempre così, una conventicola di gentlemen complotta per spodestare il proprio leader: Boris Johnson ne sa qualcosa) depose la signora Thatcher.

Così la sovrana fu munifica, nominandola baronessa e conferendole l’Ordine della Giarrettiera. Neppure Tony Blair riscosse una particolare simpatia da parte di Elisabetta. La Cool Britannia del leader new-labour le pareva troppo accelerata, troppo impetuosa, qualcosa di inutilmente moderno a scapito di un mondo - il suo - che avrebbe potuto durare secoli. Ma fu proprio Blair a salvarla all’indomani della morte di Lady Diana, figura di modesta levatura ma fin troppo esaltata dall’immaginario popolare. Blair condusse per mano la regina spingendola a un gesto inusitato - come quello di deporre fiori davanti alla cancellata di Buckingham Palace, al pari di uno qualunque dei suoi sudditi - che le restituì un’insospettata umanità. Ma Elisabetta non gli è stata mai grata.

E forse nemmeno grata lo è stata a David Cameron, a Theresa May e a Boris Johnson, responsabili a vari livelli (chi per inadeguatezza, chi per calcolo, chi per inesausti rancori) della Brexit e del divorzio traumatico dall’Europa. Tuttavia non lo ha mai dato a vedere, come si confà a un sovrano, che regna ma non governa. A proposito delle beghe famigliari, quelle di casa Windsor – amplificate, sminuzzate, scrutinate fino allo spasimo da infaticabili fogli scandalistici che proprio su tali vicende fondano la loro prosperità – non sono poi così diverse da milioni di quadretti piccolo-borghesi dei nostri giorni, quelli del passato, soprattutto. Quanto al futuro, se la vedranno gli eredi al trono.

Carlo, per primo. Poi William, in linea di successione, accorsi precipitosamente a Balmoral. Consci, tutti quanti, che il secolo di Lilibet sia irripetibile come la sua tempra umana, a cominciare dalla composta sopportazione di un consorte vanitoso e problematico come Filippo di Edimburgo. Il protocollo predisposto per consentire al settantatreene Carlo di salire al trono si chiama (humor nero britannico?) Spring Tide, marea di primavera, e contempla anche l’eventualità di attacchi terroristici e disordini pubblici. «Non dovrà la morte farsi vanto che tu vaghi nella sua ombra», recita un sonetto di Shakespeare. Difficile per molti immaginare un mondo senza Elisabetta. Che, come in un lungo incantesimo senza tempo, aveva quasi convinto tutti di essere immortale.

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