martedì 19 febbraio 2013
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​C’è un mes-saggio che gira tra la gente, un messaggio violento, disperato e pericoloso, tanto più pericoloso in quanto nessuno lo contrasta, ed è questo: torturare è brutto, è intollerabile, è disumano, però in casi estremi può essere necessario, e dunque si può. Il mezzo che trasmette questo messaggio (mai chiaramente, è ovvio, ma il messaggio subconscio è efficace quanto e più di quello conscio) è un film di grande successo, e che nelle prossime settimane avrà un successo ancora maggiore, perché è candidato, con ottime possibilità, a numerosi Oscar. Il film è Zero Dark Thirty, la regista Kathryn Bigelow. Il titolo non è tradotto in italiano, e non è traducibile, perché appartiene al gergo militare americano. Indica il tempo della notte compreso fra la mezzanotte e le quattro del mattino, il tempo senza luce e senza controllo, in cui si fanno di solito le incursioni. Il film narra un’azione segreta, illegittima e rischiosa: elicotteri americani trasportano squadre d’incursori, attrezzati con visori notturni, nel cortile del compound di Abbottabad, in Pakistan, dove Osama Benladen sta dormendo con la sua numerosa famiglia e le sue guardie. Gli incursori fan saltare le porte con cariche esplosive, irrompono nelle stanze, corrono da un piano all’altro, ammazzano tutti gli uomini che incontrano, risparmiano donne e bambini, ripartono con sacchi di documenti e un cadavere. Fuggono prima che arrivino gli F16 del Pakistan, già alzati in volo. Domanda: di chi è il cadavere che trasportano nel sacco? Lo sapremo alla fine del film, quando verrà aperta la cerniera e vedremo il corpo per un attimo, dalla parte dei piedi. Ne vediamo il mento, la barba, l’arco delle sopracciglia, ma vediamo un’aggregata della Cia, protagonista del film, di nome Maya, che alla domanda: «È Osama?», fa cenno di sì. È lui. Il Grande Nemico è morto. L’abbiamo trovato e ucciso. Giustizia è fatta. La fine del film si collega con l’inizio, e l’inizio è raccapricciante: un terrorista di al-Qaeda viene torturato da uomini della Cia. La Cia sa che lui sa dov’è Benladen, sa quali sono i suoi messaggeri, dove sono, come comunicano. E vuole farglielo dire. Ma lui (nudo, legato per i polsi al soffitto) non fiata. La tortura consiste nel famigerato waterboarding: l’uomo è steso a pancia in su, la faccia coperta da un telo, e sul telo, all’altezza della bocca, viene versata acqua da una brocca. È l’annegamento. L’astuzia consiste nell’interromperlo un attimo prima che il prigioniero muoia, per poi riprenderlo. Domanda: serve, questa tortura? Da Cesare Beccaria in poi la risposta è: no. Ma se saltiamo dall’inizio alla fine del film, la risposta è: sì. La narrazione mette sui due piatti della bilancia il massacro dei tremila innocenti nelle Due Torri, e il waterboarding di questo terrorista, anzi di questi terroristi, perché ce ne sono anche altri, per farli parlare e poter fare giustizia. La tortura urta contro il nostro sistema morale, giuridico, costituzionale, e, se in segreto la pratichiamo, in pubblico dovremo negarla. Così è nel film. Mentre sul terrorista prigioniero si fa quel che si fa, sul televisore appare la faccia serena del presidente degli Stati Uniti a ripetere che l’America non violerà mai i diritti umani. Ci si domanda da che parte stia la regista. Sta ovviamente dalla parte verso la quale pende lo spettatore, dopo visto il film. Se lo spettatore sente la trama del film come l’attuazione di un’opera di giustizia, allora tutta la trama è redenta da quella giustizia, alla fine come all’inizio. E questa è la peggiore conseguenza del terrorismo: non soltanto scardina il senso della giustizia nei terroristi, ma obbliga i loro nemici a fare altrettanto.
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