giovedì 1 agosto 2013
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Questa è una storia vera che va raccontata. Risale a qualche giorno fa e si riassume così: arrivato in Italia, dopo aver cercato inutilmente lavoro per due giorni, si suicida un rumeno di 46 anni. Ma forse si può raccontarla meglio, anche perché ha marginalmente lambito chi scrive.Siamo in piena estate, sulla riviera adriatica. Uno scrittore, presidente di un premio, decide di usare il treno per andare alla cerimonia di premiazione in una regione vicina, affacciata sullo stesso mare; ha mal di denti e, conclusa la premiazione, passa in bianco la successiva notte in albergo e decide di ripartire col primo treno, verso le cinque del mattino. È domenica, è presto e sul treno deserto – che non raccoglie quasi nessuno nelle varie stazioni lasciandosi alle spalle solo panchine vuote – sente un ferroviere dire all’altro: s’è impiccato uno, l’hanno trovato poco fa dentro a questa stazione, appeso alla cinta dei pantaloni. La tristezza della notizia contrasta con la bellezza di ciò che si vede dai finestrini: l’Adriatico sta tingendosi di rosa, l’acqua ha smesso d’essere una scura massa fusa con la notte e ha preso a ospitare tremuli riflessi d’argento che vanno infittendosi in una scia verso il sole sorgente; i binari corrono paralleli al mare, e sono tanto vicini, qui, che a volte solo gli scogli li separano dalle onde. Nelle ore successive, lo scrittore apprende altri dati. Dai documenti trovatigli addosso, il suicida, che si chiama K., era un rumeno, proveniente da una delle zone più povere della Romania, con due figli in patria e una moglie badante nel Lazio; non parlava la nostra lingua e con ogni probabilità era sbagliato il numero di telefono del datore di lavoro italiano che aveva con sé e che ha chiamato di continuo. Notato piangente, era stato avvicinato da connazionali cui aveva detto di non aver bisogno di nulla, ma si era offerto ai bar della zona per lavori anche di qualche ora. Non sapeva cosa fare, non sapeva dove andare, era un uccello senza nido, una volpe senza tana e non sapeva dove poggiare il capo. Forse per ritrovarsi in una situazione così non aveva programmato bene la sua venuta in Italia, ammesso e non concesso che la vita consenta ai morsi del bisogno di ruminare una qualche programmazione. Forse era fragile psichicamente. Forse si può arrivare a dire che ogni suicida lo è. Di sicuro ci sono molti "forse" in questa storia.Lo scrittore non è sceso dal treno, ma con la testa si è seduto lì alla stazione, su una panchina metaspaziale a metatemporale, a parlare con K. In questa conversazione tra vivi e morti i dialoganti si sono liberati della loro identità – l’identità apparente che l’esistenza terrena fa assumere loro, espropriandoli dell’altra, vera, che rende inquieto il cuore finché trovi requie nella pienezza dell’Alterità. Hanno parlato con la lingua senza parole dei sogni, che annulla ogni distanza.E il suicida ha raccontato. Dove si trova ora, un Padre, Qualcuno che capisce la sua lingua, lo ha accolto. Non è più senza lavoro. Non è più senza speranza. Non è più neanche rumeno, o padre o marito, o disoccupato. Oltre le stelle, è solo una creatura che il Creatore ha ricongiunto a sé. Non ospita più in se stesso quel buco nero di disperazione, invisibile agli altri, che alla fine l’ha risucchiato, facendogli fare ciò che i media chiamano gesto disperato, gesto inconsulto. «Prima di compierlo – ha scritto Avvenire su questo tema qualche settimana fa – parla, chiama, fatti sentire, raccontaci, fratello, piangi ma mettici in condizione di condividere; proveremo ad ascoltare, perché la tua vita, chiunque tu sia, è preziosa per noi». Sennonché K., come si chiamava il rumeno, a chiamare, in due giorni, ci aveva provato trenta volte, al numero dove nessuno rispondeva.La storia finisce qui. Senza un happy end, come molte storie vere. Col rimpianto, semmai. Di non essere stati lì a tendere una mano, quella che K. per due giorni ha cercato e cercato, solo e sempre più disperato, pigiando il tasto della richiamata.<+copyright>​
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