venerdì 4 aprile 2014
​L'effetto degli investimenti militari? Più freno che sviluppo.
di Raul Caruso
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Il dibattito pubblico ripropone ciclicamente la questione dell’opportunità degli investimenti in campo militare. Un tema – lo si è visto anche in relazione a recenti fatti di cronaca, come per l’acquisto dei cacciabombardieri F35 – che finisce per sollevare l’argomento delle ricadute che le spese militari hanno sull’economia nel suo complesso. La letteratura scientifica specializzata, in realtà, a questo proposito lascia pochi dubbi: le spese militari non contribuiscono affatto, come si crede, alla crescita economica. Una recente rassegna pubblicata dal maggior studioso al mondo sul tema, John Paul Dunne, professore emerito all’Università di Bristol, ha mostrato con chiarezza che gli investimenti militari finiscono al contrario per rappresentare un freno allo sviluppo.
Esiste nel senso comune, però, una evidente fiducia in merito a eventuali benefici che potrebbero manifestarsi per l’economia in seguito a un sistematico investimento in armamenti. In un periodo di pace, peraltro, questo è uno degli argomenti classici che vengono utilizzati per giustificare la proprietà e il finanziamento pubblico delle imprese militari, che in realtà sono funzionali a ben altre logiche di potenza. In particolare, una delle imprecisioni più comuni è l’idea che gli investimenti nella ricerca in ambito militare contribuiscano sicuramente a innalzare il livello tecnologico anche in ambito civile. Questa idea gode di fascino e popolarità in virtù del fatto che conoscenza e innovazione tecnologica sono da tutti considerate motori dello sviluppo economico. A tal proposito, molto spesso si cita il caso di Internet, che si pensa sia stato ideato per scopi militari prima di divenire l’innovazione rivoluzionaria che conosciamo. Questa ricostruzione, per quanto popolare, come tante altre è in realtà inesatta.
Secondo quanto riportato dalla stessa Internet Society, Internet non è stato affatto sviluppato per scopi militari, in particolare per resistere a un attacco nucleare. Le finalità erano puramente scientifiche. In quegli anni il coinvolgimento militare è stato esclusivamente finanziato per volontà del presidente americano Lyndon Johnson che, come riporta Janet Abbate nel suo libro Inventing the Internet, aveva espressamente spinto tutte le agenzie federali a finanziare la ricerca di base e non la ricerca applicata a scopi od obiettivi specifici. L’origine di Internet è, infatti, da collocare in università e più precisamente nel lavoro di alcuni studenti di dottorato del Mit di Boston agli inizi degli anni Sessanta del secolo scorso. La prima trasmissione via Internet è partita alle 22.30 del 29 ottobre 1969 da un laboratorio dell’Università di California a Los Angeles per raggiungere un altro centro di ricerca presso l’Università di Stanford, a San Francisco.
Successivamente, quando nel 1975 la rete Arpanet fu rilevata dall’amministrazione militare, il suo sviluppo subì invece un rallentamento. L’amministrazione militare, nello specifico, ritardava l’accesso alla rete a un numero crescente di ricercatori. Tanto che proprio a causa del conflitto tra esigenze dei militari e interessi degli scienziati, la National Science Foundation nel 1981 lanciò un nuovo progetto indipendente. La rete Internet su cui lavoriamo oggi nasce proprio da questo secondo progetto. Quella di Internet non è, quindi, una storia di ricerca in campo militare, bensì una storia di finanziamento pubblico alla ricerca di base. La differenza è significativa.
In ogni caso, data la rilevanza del tema, è giusto approfondire l’analisi e le criticità della ricerca militare soprattutto perché come ha scritto in un suo recente saggio Keith Hartley, pioniere dell’economia della difesa e professore emerito presso l’Università di York, «ricerca e sviluppo nel campo della difesa sono cinte da segretezza, miti ed emozioni». La prima criticità della ricerca in campo militare, infatti, è la segretezza. Come nel caso di Internet le amministrazioni militari tendono a rallentare l’introduzione nel mercato civile delle innovazioni sviluppate. Il motivo è presto detto: rivali e nemici potrebbero avvantaggiarsene. Nel contempo, ricercatori impiegati su diversi progetti di ricerca militari possono essere costretti ad abbandonare eventuali applicazioni commerciali future in ambito civile per lo stesso motivo.
Negli Stati Uniti una distorsione di questo tipo è diventata evidente dopo l’approvazione del Patriot Act in cui l’attività di ricerca, per diversi miliardi di dollari, è stata vincolata negli anni a seguire a soli fini militari. Come evidenziato da Jay Stowsky in un saggio pubblicato su Research Policy, a dispetto del fatto che dopo l’11 settembre i finanziamenti per la ricerca sul bioterrorismo sono lievitati da 52 milioni a 1,7 miliardi di dollari in soli due anni, molti ricercatori hanno preferito abbandonare progetti in corso per non incorrere nei nuovi vincoli definiti dall’amministrazione militare. Questo esempio ci porta a valutare un’ulteriore criticità: vale a dire la distorta allocazione del capitale umano, con conseguente spiazzamento della ricerca in ambito civile. Settore militare e settore civile, infatti, utilizzano le medesime risorse umane. Le quali sono però in disponibilità limitata. Detto più semplicemente: in un mondo che dispone di un numero limitato di ingegneri, un ingegnere che lavora nella progettazione di un sistema di puntamento non sviluppa un prodotto innovativo destinato a soddisfare bisogni dei consumatori in ambito civile. Tale distorsione nell’allocazione del capitale umano contribuisce a spiegare il nocumento che provoca all’economia ed è particolarmente rilevante in un Paese con poca mobilità e forti rigidità nel mercato del lavoro, come l’Italia, mentre può evidentemente essere meno rilevante per Paesi come gli Stati Uniti o il Regno Unito.Guardando alla performance italiana in ricerca e innovazione, la Commissione Europea ci ha recentemente inserito al 15esimo posto in classifica sui 28 membri, ben lontano da Germania, Svezia, Regno Unito e Francia e, comunque, al di sotto della media dell’Unione. Per spiegare questo gap basterà rilevare che secondo quanto riportato dall’Anvur nel Rapporto sullo stato del sistema universitario, le risorse pubbliche investite nella ricerca sono solamente lo 0,5% del Pil. L’economia italiana, quindi, beneficerebbe di una significativa riduzione delle spese militari e, in particolare, di una riallocazione di risorse a favore della ricerca di base condotta nelle università e negli altri enti di ricerca. Del resto, i ricercatori italiani sono tra i migliori al mondo come affermato un recente rapporto commissionato dal governo della Gran Bretagna (International Comparative Performance of the Uk Research Base), in cui gli italiani appaiono tra i più produttivi in rapporto alle risorse investite. Nonostante i pochi euro impiegati, insomma, in Italia siamo bravi. Condannare i nostri ricercatori a progettare armi è uno spreco di genio e talento oltre che di risorse finanziarie.
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