giovedì 19 giugno 2014
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​Per Asia Noreen Bibi sulle nostre pagine proponiamo ogni giorno un pensiero. A chi crede, comunque creda, chiediamo un pensiero ancora più profondo e più alto: quello che si fa preghiera a Dio. E a tutti poco più di un anno e mezzo fa abbiamo anche chiesto firme e parole solidali, che sono arrivate a decine di migliaia, da persone semplici e dai vertici istituzionali del nostro Paese. Parole e firme che abbiamo fatto giungere alle massime autorità del Pakistan, la nazione a maggioranza islamica di cui Asia Bibi – donna, sposa e madre cattolica – è cittadina.È in carcere ormai da 1.825 giorni, Asia. Cinque anni esatti di dura e angosciosa lontananza dai cinque figli e dal marito Ashiq, portando il peso schiacciante di una condanna a morte per «blasfemia». È detenuta e destinata al patibolo in forza di una terribile sentenza di primo grado basata sulla terribile interpretazione di una terribile legge che l’ha punita per il solo fatto di essere cristiana e di professare apertamente la propria fede. Ed è in vana attesa di un processo di appello che è stato deciso, proprio come sollecitavano anche le "nostre" firme, ma che non riesce a cominciare mai. Per questo a chi ha potere e coscienza continuiamo a chiedere di fare tutto ciò che è umanamente e legalmente possibile perché finalmente a una piccola e povera donna cristiana – che cristiana vuole restare – sia resa giustizia.È in fondo facile difendere Asia Bibi da qui, da questa parte di mondo dove viviamo – a volte sottovalutandola, e persino arrivando a disprezzarla – una libertà piena di contraddizioni eppure rotonda e vera. Non si rischia la vita a farlo, e tutto sommato si tratta "solo" di battere quella che Papa Francesco chiama la «cultura dell’indifferenza», che ci induce a chiudere gli occhi su ciò che può scomodare le nostre vite o anche solo le nostre coscienze. Molto meno facile è difendere Asia nel grande e complesso Paese dove lei è nata e vissuta. Ce lo hanno tragicamente dimostrato l’attentato mortale subito da Salman Taseer, islamico, governatore del Punjab, e l’autentico martirio di Shahbaz Bhatti, cattolico, ministro per le minoranze religiose: due politici popolari, autorevoli e giusti, "colpevoli" di aver preso a cuore e difeso con equilibrio, ma senza tentennamenti la causa di Asia Bibi e di tutti i pachistani – migliaia, anche musulmani e non solo fedeli a religioni minoritarie – che in questi anni sono caduti vittime della legge sulla blasfemia e delle sue feroci e spesso interessate applicazioni fondamentaliste. Ma continua a ricordarcelo ancora oggi la drammatica, più ancora che scandalosa, impossibilità di celebrare il tanto atteso processo di appello che potrebbe e dovrebbe portare, per l’evidente pretestuosità dell’accusa di blasfemia, alla revisione della condanna a morte della donna. «Non possiamo pretendere dai giudici un sacrificio estremo, che non avrebbe alcun effetto sulla sorte di Asia», ammette con amarezza e realismo Paul Bhatti, fratello maggiore di Shahbaz, a lungo apprezzato medico proprio nel nostro Paese, rientrato in Pakistan per continuare la pacifica battaglia di civiltà per la convivenza nel rispetto e nella libertà condotta nella sua troppo breve vita dal ministro assassinato.Parole su cui conviene riflettere. Perché qui, in Italia, si può ben essere coraggiosi difensori della libertà religiosa e di pensiero. Ma anche per noi non è affatto semplice imparare e reimparare a esserlo con determinazione e saggezza. È infatti facile, infinitamente facile, dimenticarsi vergognosamente di Asia, delle sue sorelle e dei suoi fratelli di fede cristiana in Pakistan, in India, in Nigeria, in Kenya, in Sudan – il Sudan di Meriam – e in troppe altre terre di persecuzione, così come è facile limitarsi a inveire contro il Paese di cui Asia è figlia, senza conoscerlo e senza capire che vittime del "regime" di sopraffazione imposto dai gruppi fondamentalisti islamici sono anche tantissimi musulmani giusti e la faticosa e condivisa opera di costruzione della democrazia pachistana.Chiedere giustizia con Asia e per Asia è, allora, chiedere giustizia per la sua famiglia e per il suo Paese. Perché la giustizia è possibile. E non si può rinunciare alla speranza, virtù cristiana e umana, neanche sotto il peso di cinque anni di ingiustizia.
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