La vita e la cura di Charlie (e mie)
venerdì 21 luglio 2017

Seguiamo tutti con il fiato sospeso la vicenda del piccolo Charlie, colpito dalla sindrome da deplezione del DNA mitocondriale e per il quale i medici del Great Ormond Street Hospital di Londra e i giudici britannici, stanno decidendo l’interruzione o meno delle cure. Una storia ricca di drammaticità, emozioni, dolore ma anche di speranza e dignità. La mia è una vicinanza umana: da persona che convive con la Sclerosi Laterale Amiotrofica, malattia rara neurodegenerativa, e che ogni giorno ha bisogno di assistenza per compiere qualsiasi atto quotidiano, che si alimenta tramite un sondino nello stomaco tramite una pompa e che si supporta con un respiratore durante la notte e in alcuni momenti della giornata e nei momenti di stanchezza. Ma pur essendo così "dipendente" dall’altro, prigioniero di un corpo che non risponde più alla mia volontà, ho deciso di non essere "dipendente" dalla malattia. E sfido da diversi anni l’«inguaribilità» della malattia anteponendo con forza quella della «curabilità» della stessa. Perché ne sono fermamente convinto anch’io: «inguaribile» non è sinonimo di «incurabile», e questo determina uno "sguardo" diverso rispetto alla persona malata e al suo percorso di vita.

Per me essere nutrito con una pompa nella notte, essere ventilato, è la vita. Come per gli altri mangiare e bere e respirare. Spesso mi confronto con altri malati, ho appreso testimonianze incredibili come quella del padre Modesto Paris, frate agostiniano con una vita passata tra le missioni nelle Filippine, in Camerun e in Romania, e che grazie al sintetizzatore vocale ha potuto continuare a dire messa (Paris è morto di SLA il 30 maggio 2017). Penso allo scienziato Stephen Hawking, anche lui malato di SLA dall’età di 26 anni, ma soprattutto a tutte quelle persone che quotidianamente testimoniano la quotidianità della vita con la malattia, penso ai bimbi affetti da patologie simili a quelle del piccolo Charlie, senza terapie, inguaribili, secondo la dizione medica corrente, ma non incurabili e sostenuti dall’affetto, amore e cura dei propri familiari e curanti.

Queste storie sono legate da uno speciale fil rouge: la speranza. La speranza che definisco come quel sentimento confortante che provo quando vedo con l’occhio della mia mente il percorso che mi può condurre a una condizione migliore e che può diventare strumento di vita quotidiana. Quella speranza che leggo negli occhi dei genitori di Charlie e che li tiene così uniti al loro piccolo, pronti a sfidare ogni "condanna" anche di natura giuridica per salvaguardare la sua vita. Il verdetto appreso è che «non ci sono speranze di migliorare la condizione del bambino e ogni ulteriore tentativo costituirebbe un inutile accanimento». Ma di fronte alla speranza, al diritto di vita di un bimbo di 10 mesi, se pur legata a una macchina, al desiderio di due genitori di curare il proprio figlio si può accettare il parere espresso dai medici e dai giudici di "staccare la spina"? E quanti Charlie ci sono nelle nostre quotidianità? Ritengo che sia inaccettabile avallare l’idea che alcune condizioni di salute rendano indegna la vita e trasformino il malato o la persona con disabilità in un peso sociale e in un costo.

È lo stesso papa Francesco che ci fa riflettere: «Difendere la vita umana, soprattutto quando è ferita dalla malattia, è un impegno d’amore che Dio affida ad ogni uomo». Credo che noi medici, operatori sanitari in generale, le Istituzioni stesse, noi tutti dobbiamo difendere il desiderio di vita di qualunque individuo. Abbiamo una grandissima fortuna: quella di poterci rapportare e relazionarci con l’essere umano che soffre, ma che può e riesce a insegnare molto. Non si possono o si devono creare le condizioni per l’abbandono di tanti malati e delle loro famiglie, che condividono quotidianamente con la persona colpita il peso della malattia. In nessuno deve essere alimentato un sentimento di solitudine che introduce nelle persone più fragili il dubbio di poter essere vittima di un programmato disinteresse da parte della società, che può favorire decisioni rinunciatarie. Bisogna contrastare la corrente di pensiero che ritiene che la vita, in certe condizioni, si trasformi in un 'accanimento' e in un calvario inutile, dimenticando che un’efficace presa in carico e il continuo sviluppo della tecnologia consentono anche a chi è stato colpito da patologie gravi e altamente invalidanti di continuare a guardare alla vita come a un dono ricco di opportunità. In questi tempi si deve lavorare concretamente sul riconoscimento della dignità dell’esistenza di ogni essere umano.

Questo deve essere il punto di partenza e di riferimento di una società che difende il valore dell’uguaglianza e si impegna affinché la malattia e la disabilità non siano o diventino criteri di discriminazione sociale e di emarginazione. Il dolore e la sofferenza (fisica, psicologica), in quanto tali, non sono né buoni né desiderabili, ma non per questo sono senza significato: è qui che l’impegno della medicina e della scienza deve concretamente intervenire per eliminare o alleviare il dolore delle persone malate o con disabilità, e per migliorare la loro qualità di vita, evitando ogni forma di accanimento terapeutico. Questo è un compito prezioso che conferma il senso della professione medica, non esaurito dall’eliminazione del danno biologico. Si dovrebbe guardare alla vita umana come mistero non riducibile al suo livello biologico e non manipolabile da nessuno. È e deve essere una posizione 'laica'. Si deve garantire al malato, alla persona con disabilità e alla sua famiglia ogni possibile, proporzionata e adeguata forma di trattamento, cura e sostegno. È estremamente importante ribadire che esistono strumenti giuridici come la Convenzione Onu, che stabilisce come le persone malate o con disabilità debbano essere salvaguardate durante tutto il loro percorso di vita. Gli strumenti esistono, ma è necessario utilizzarli, fare in modo che le persone siano a conoscenza e che la classe medica li attui nel modo più corretto possibile. Non solo nel nostro Paese, l’indipendenza e l’autonomia del medico, che è un cittadino al servizio di altri cittadini, dovrebbero garantire che le richieste di cura e le scelte di valori dei pazienti siano accolte nel continuo sforzo di aiutare chi soffre e ha il diritto di essere accompagnato con competenza, solidarietà e soprattutto amore durante tutte la fasi della malattia. Perché la Vita è una questione di sguardi e di speranza, anche per chi è legato a delle macchine. Guardiamo prima di tutto, e ascoltiamo, la persona, non fermiamoci alla 'macchina' e non consideriamo una maledizione la vita quotidiana che essa consente. Ciò che oggi si pensa non essere possibile, domani chissà... la scienza è incredibile!

*medico, malato di SLA

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