Si arrivi presto alla definizione di un limpido «equo profitto»
martedì 11 gennaio 2022

Caro direttore,
leggendo su “Avvenire” di domenica scorsa, 9 gennaio 2022, l’editoriale del professor Becchetti intitolato «Il solo prezzo accettabile» nel quale si ragiona sul come andare «oltre le contraddizioni del capitalismo», sono rimasto molto perplesso nel veder richiamate certe chiusure di aziende in attivo verificatesi di recente in Italia e dovute esclusivamente alla necessità di massimizzare il profitto degli azionisti. È questa la ragione per cui si delocalizza verso Stati dove il costo del lavoro è minore, ignorando il danno economico e sociale che si genera là dove si chiude una realtà produttiva che pure era attiva economicamente. Tutto ciò mi sembra gravissimo e immorale e mi sorge una domanda: non è possibile definire il concetto di “equo profitto” trascurando il quale si incorre in un reato come succede quando si applicano tassi di interesse usurai? Non è accettabile che alcuni abbiano il massimo rendimento economico facendo pagare ad altre persone buttate sul lastrico il proprio vantaggio. Mi sembra un modo di agire che grida vendetta al cospetto di Dio.

Carlo Maria Pagliari Milano

La penso come lei, gentile e caro ingegner Pagliari. La chiusura e la delocalizzazione di aziende in salute (che avvenga in Italia o altrove) per puntare a profitti sempre più alti è un misfatto vero e proprio e per noi cristiani – come lei suggerisce e come un tempo si diceva – è uno di quei peccati che «gridano vendetta al cospetto di Dio». Detto questo, credo che non sia facile dare sostanza al concetto di “equo profitto”, ma credo anche che sia indispensabile farlo a livello mondiale sulla base di una serie di parametri che tengono conto sia del conto economico di un’impresa sia del rapporto tra quell’attività e l’ambiente umano e naturale in cui si realizza.

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