I sette ex esponenti della lotta armata tratti in arresto a Parigi, più i due che si sono poi costituiti, tornati in libertà vigilata, in tale stato saranno ancora per qualche tempo. E intanto in libertà vigilata rimane anche la nostra capacità di fare i conti con i fatti di quegli anni. Il frastuono suscitato dall’inguaribile clima da tifoserie contrapposte che ha accompagnato anche quest’ultima vicenda ce la farebbe apparire come l’ennesima occasione mancata, se non fosse risuonata anche la voce dei parenti delle vittime. Che hanno indicato l’unica strada possibile nella riconciliazione, per dare un senso compiuto a questa opportunità scaturita dalla revisione, dopo tanto tempo, della cosiddetta 'dottrina Mitterrand'. Che, con una interpretazione di comodo, ha umiliato per anni non solo le vittime, ma anche le nostre istituzioni e l’amministrazione della Giustizia.
Il perdono delle vittime, quando accade, e insieme la loro sete di giustizia, indicano oggi una strada diversa, rimasta a lungo inascoltata. Si pensi a a Gemma Capra e al suo necrologio pubblicato sul Corriere della sera, per la morte del marito, il commissario Luigi Calabresi ('Padre, perdona loro che non sanno quello che fanno...'), si pensi a Giovanni Bachelet nella celebre preghiera dei fedeli ai funerali del padre Vittorio, assassinato dai brigatisti rossi. Certo, allo Stato non è consentito 'perdonare' (anche se il potere di grazia, esiste), ma squarci di lucida umanità come questi hanno acceso nel buio di quegli anni una luce che resta viva, indicando la strada che passa per il recupero del condannato, finalizzando la condanna a un percorso di ravvedimento, come prevede la nostra Costituzione.
A entrare in gioco per primi, in modo profetico, furono uomini di Chiesa. Un sacerdote, don Alberto Zanini, sulla scia delle parole di Gemma Capra, accompagnò verso il pentimento e la successiva confessione uno degli autori del delitto Calabresi, Leonardo Marino. E poi i cappellani delle carceri – come quello di Nuoro, don Salvatore Bussu, o quello di San Vittore, don Luigi Melesi – avviarono un percorso con gli ex della lotta armata puntando sul recupero della loro umanità – travolta nel vortice di una letale ideologia – che culminò con la consegna di armi ed esplosivi al cardinale Martini, nel 1984. Ma come non ricordare il celebre appello – inascoltato – di Paolo VI agli «uomini delle Brigate Rosse» che detenevano Aldo Moro, o il gesto profetico di Giovanni Paolo II che a Rebibbia, nel 1983, volle incontrare il suo mancato assassino Ali Agca?
La Chiesa, si dirà, fa il suo mestiere. Se non che il personalismo cui si ispira la nostra Costituzione e in particolare la nostra legislazione penale, si è rivelato negli anni anche lo strumento più adeguato a soddisfare la sete di giustizia e verità di cui lo Stato deve farsi interprete. Colpisce che nel buco nero che ostacola una memoria condivisa di quegli anni – ossia le ombre e i depistaggi che hanno segnato tutto il capitolo della 'strategia della tensione' – una rara eccezione sia costituita dalla strage di Piazza della Loggia a Brescia. A differenza di tanti episodi analoghi che hanno insanguinato, e alimentato, gli 'anni di piombo' in questo caso, sebbene dopo 43 anni, una verità è stata finalmente acclarata, da tutti condivisa, ed è 'storicamente' la stessa di piazza Fontana, caso per cui si fatica invece a fissare una memoria condivisa, una volta persa la possibilità di arrivarci attraverso una sentenza definitiva. Ebbene, colpisce il dato, forse non casuale, che il presidente delle vittime di Brescia, Manlio Milani, sia uno degli esponenti più convinti della cultura della riconciliazione, al punto di aver chiesto scusa, lui per primo, ai fascisti – che gli uccisero la moglie, 47 anni fa – per aver gridato a suo tempo slogan minacciosi contro di loro. Anni e anni passati a coltivare la memoria, a Brescia – e non la vendetta, o la retorica di parte – con un lavoro certosino al fianco dei magistrati per digitalizzare ogni contributo, ha prodotto alla fine il risultato, quando sembrava ormai impossibile. La strada della riconciliazione, della giustizia riparativa – di cui il ministro della Giustizia Marta Cartabia (protagonista con Mario Draghi di questa svolta con Parigi) è una delle maggiori studiose – si rivela non solo quella più corretta dal punto di vista costituzionale, ma anche la più produttiva dal punto di vista pratico, la più appagante dal punto di vista sociale, la più significativa nel messaggio di deterrenza che è in grado di offrire alle giovani generazioni. L’odio, la coltivazione della memoria per scomparti, invece, non porta da nessuna parte, lo si è visto. E allontana non solo la giustizia, ma anche la verità condivisa. In una fase come questa in cui – come mai prima – di vera condivisione, di 'pacificazione' c’è urgente bisogno.