Se il Paese conta di più
sabato 30 gennaio 2021

Le cronache raccontano che una vincita milionaria qualche volta porta al disastro la famiglia baciata dalla fortuna. Avere troppi soldi in mano, quando non si è preparati a spenderli, può causare clamorosi sprechi e scatenare violenti conflitti. Non sia mai che questo possa accadere anche al nostro Paese che, grazie al programma Next Generation Eu, si trova ad avere risorse insperate da investire sul futuro comune.

La crisi di governo ha tratti paradossali: non ha dell’incredibile che una maggioranza di governo sia entrata in crisi davanti a oltre 200 miliardi da spendere per cambiare il Paese? Tanto più che la presidente (tedesca) della Commissione europea ha ripetutamente usato parole di amicizia e fiducia nei confronti dell’Italia. A sentire le dichiarazioni dei mesi scorsi tutti erano d’accordo che si trattasse di un’occasione storica da non perdere. E poi la task force di Colao (chi se la ricorda più?), gli Stati generali, etc. Eppure, venendo al dunque, tutto sembra sciogliersi come neve al sole. Rivelando la fragilità di una classe politica chiamata alla prova della storia.

È la dimostrazione che i soldi, da soli, non bastano. Soprattutto quando non si tratta semplicemente di spendere a debito – accontentando ogni richiesta nella prospettiva di un ritorno elettorale – ma di costruire un progetto per il futuro. Unico vero vincolo dei soldi europei. Per investire servono idee, capacità di realizzazione, conoscenza dei problemi, competenze per trovare soluzioni adeguate. Ma soprattutto serve un’aspirazione, un desiderio, un sogno.

Insomma, la voglia di 'rifare il mondo' e così mobilitare le energie diffuse e dare i criteri per scegliere tra le tante cose che teoricamente si possono fare. La crisi di queste settimane ci dice che non è un problema di risorse, ma di testa e cuore.

Molti hanno paragonato il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) al Piano Marshall. Ma allora le risorse venute dagli Stati Uniti furono il moltiplicatore dell’energia che attraversava il Paese, capace di muoversi all’unisono verso un obiettivo comune di rilancio e sviluppo. Fu proprio la voglia di cambiare la vera molla che scattò nel secondo Dopoguerra. In quella stagione che chiamiamo Ricostruzione. Ora è più difficile. Il problema è politico, ma anche, e prima di tutto, culturale. Chi vuole cambiare in Italia?

Il Paese da anni declina, addormentato in quello che Luca Ricolfi ha efficacemente chiamato «la società signorile di massa» che si è abituata a vivere di rendita e di debito, che ha svalorizzato la scuola e il lavoro e che ha persino accettato la creazione di una «infrastruttura paraschiavistica» (dapprima popolata da immigrati, ma dove finiscono sempre più spesso anche italiani) per continuare a garantirsi il proprio benessere. Il problema è che ora la pandemia fa saltare questo equilibro al ribasso. Distruggendo senza lasciare macerie. Attorno a noi non ci sono, come nel dopoguerra, ponti, strade, scuole da ricostruire. Proprio questa assenza di macerie rende così difficile il movimento necessario di fronte ai 200 miliardi europei. Certo, di cose da fare ce ne sono infinite. Come dimostrava l’elenco caotico di piccoli progetti che aveva riempito la prima versione del Pnrr. Ma non è questo che ci serve. La richiesta che ci viene dall’Europa è sacrosanta: il piano deve avere una struttura, una logica. E, forse si può aggiungere, un’anima. Per essere efficaci, le risorse devono essere spese rispetto a un’idea di Paese che sia simbolicamente in grado di tenere insieme l’azione di molti: imprenditori, artigiani, commercianti, professionisti, professori, tecnici, amministratori.

I soldi, da soli, sono diabolici. Dividono. Per questo serve una dimensione simbolica. Ricordando che simbolo – dal greco sun-ballo (l’opposto di dia-ballo, cioè il diavolo, il divisore) – indica proprio quel movimento di ricomposizione che combatte l’entropia distruttiva che da anni ammala la società italiana. Sempre più ridotta, come dice Giuseppe De Rita, a mucillagine.

Per questo, non ci può essere Pnrr o, se preferite, Recovery Plan senza una visione unitaria centrata sui temi della sostenibilità integrale: economica, ambientale, sociale, umana. Ed è qui che la maggioranza si è dissolta. Ed è da qui che si deve tentare di ricostruire. Perché per realizzare questo obiettivo non bastano le parole. Servono persone credibili, scelte concrete, obiettivi coraggiosi. Serve una cornice di senso su cui ricostruire la fiducia che manca. In teoria sappiamo tutti che cosa c’è da fare. Ma bisogna deciderlo. E per deciderlo bisogna scegliere. E scegliere significa tagliare. Cioè lasciare fuori qualche cosa, non mettere dentro tutto. Prendere una direzione piuttosto che un’altra. Combattere interessi costituiti, mettere in discussione incrostazioni di potere, rompere irrigidimenti patologici (in primis la burocrazia soffocante).

La legislatura ha ancora due anni davanti a sé. Se non si vuole andare alle elezioni, i partiti di maggioranza devono essere in grado di dire chiaramente qual è la scommessa su cui si ritrovano. Il Paese ha urgenza di sapere la direzione da seguire per lasciarsi alle spalle il disastro della pandemia. Deve sentire di essere parte di uno sforzo comune per rialzarsi dal lungo declino in cui è scivolato. Ciò significa cambiare schema, lavorare per un’economia non più basata sullo sfruttamento e l’estrazione di ricchezza, ma sulla capacità di creare valore (insieme): economico sì, ma anche sociale culturale, ambientale, istituzionale.

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