Saman e i suoi fratelli: investiamo in civiltà
mercoledì 2 giugno 2021

La vicenda di Saman Abbas, la ragazza di origini pachistane di Novellara scomparsa, forse uccisa, per non aver accettato un matrimonio combinato con un cugino nel lontano Paese d’origine dei genitori, sembra fatta apposta per rilanciare lo schema dello scontro di civiltà. Da una parte noi, moderni e civilizzati, dall’altra loro, retrogradi e patriarcali, specie se musulmani: cultori di una visione della famiglia che s’impone sui singoli, irriguardosi del diritto di autodeterminazione delle figlie, desiderosi di vivere nel mondo occidentale senza abbandonare usi e costumi dei luoghi di provenienza. Due sono i modi prevalenti per esorcizzare il problema. Uno è quello di minimizzarlo, riducendolo a sporadica eccezione. L’altro è quello di ingigantirlo, ergendolo a simbolo dell’impossibilità d’integrare le popolazioni immigrate, soprattutto se così 'lontane' culturalmente e religiosamente dal nostro stile di vita.

Non è neppure vero che le autorità italiane, e nella fattispecie i servizi sociali locali, non si siano occupate del caso. Arrivata nel 2015, Saman era stata accolta alla scuola media e seguita nell’apprendimento dell’italiano, arrivando a conseguire agevolmente la licenza media. Dopo aver denunciato il tentativo di imporle un matrimonio indesiderato, Saman è stata accolta in comunità. Raggiunta la maggiore età, è stata lei a voler tornare in famiglia, probabilmente convinta da promesse rassicuranti. Forse, con il senno di poi, si sarebbe potuto tentare di dissuaderla, di farla riflettere di più, di seguirla una volta rientrata a casa, ma non si può affermare che la sua vicenda sia stata colpevolmente ignorata.

Dobbiamo domandarci allora che cosa non ha funzionato, e quali strategie si possano adottare per evitare che storie del genere – cerchiamo fino all’ultimo di evitare di parlare di tragedie – abbiano a ripetersi. Va rilevato, anzitutto, che i matrimoni fra cugini rimangono una consuetudine diffusa nell’area del Medio Oriente allargato. I gruppi familiari, là dove lo Stato offre poco ai suoi cittadini o addirittura li opprime, rappresentano di fatto un fattore di protezione sociale imprescindibile, che tende a consolidarsi mediante le alleanze matrimoniali. In secondo luogo, gli emigrati in Occidente acquistano in patria un prestigio che consente loro, fra l’altro, di negoziare matrimoni vantaggiosi. Un traguardo qui raggiungibile per pochi di loro.

Rispetto a questi fattori di attaccamento al mondo di provenienza, l’esperienza in Italia spesso ha offerto poco in termini di integrazione sociale e apprendimento culturale. Il lavoro, il più delle volte in agricoltura e al prezzo dell’isolamento in un cascinale. Una vita segregata, con pochi contatti con il mondo esterno. L’uscita dal sistema educativo per Saman, una volta conclusa la scuola media. È una storia come tante, e per fortuna molte altre non finiscono così male. Ma resta che il nostro Paese, con le sue istituzioni, a partire dalla scuola – come ha sottolineato su queste pagine domenica 30 maggio Francesco D’Agostino – non investe a sufficienza sulle tante Saman che oggi lo abitano, e sulle loro famiglie, per fornire loro una prospettiva attraente di radicamento in Italia. Non investiamo abbastanza sulla mediazione culturale e sociale. Non si punta abbastanza sulle associazioni, formate da immigrati, miste, o a base italiana, che potrebbero aiutare le famiglie ad aprirsi e le Saman d’Italia a uscire dal guscio. Non si valorizza il contributo delle comunità religiose che potrebbero accompagnarle. Spesso nemmeno ci si rende conto che in Italia abitano circa sei milioni d’immigrati – tra cui oltre un milione di giovani di seconda generazione – quando discutiamo di Pnrr, di scuola da rilanciare, di formazione professionale da riscoprire, di periferie da rammendare.

Il caso Saman è e rimarrà minoritario. Ma dovrebbe accendere una spia ulteriore su quanto sia importante, nel progettare il rilancio del Paese, lavorare per superare sperequazioni e tensioni sociali, collocare la questione dell’integrazione delle minoranze immigrate tra le priorità su cui investire con lungimiranza.

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