sabato 14 gennaio 2012
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Il dibattito – nel Parlamento e nel Paese – sulla manovra finanziaria con la quale si è cercato di mantenere a galla una barca – quella dello Stato italiano – che faceva acqua da tutte le parti, ha rappresentato una clamorosa dimostrazione di quanto lontano sia il riferimento, un poco da parte di tutti, al bene comune. Si è registrata infatti – Marina Corradi, con il suo speciale registro, ne ha già scritto su queste colonne – una corsa massiccia alla difesa dei propri interessi, personali o di gruppo: i dirigenti hanno pensato agli interessi dei dirigenti, i pensionati agli interessi dei pensionati, i farmacisti agli interessi dei farmacisti, i tassisti agli interessi dei tassisti e così via. Si riconosceva, in linea puramente teorica, che occorreva pagare: ma era sempre "qualcun altro" che doveva pagare. Caso classico la mitica imposta sui grandi patrimoni – imposta che sarebbe stata insieme giusta e necessaria, ma che non sarebbe certo, da sola, bastata – proposta come una sorta di bacchetta magica risolutiva della crisi del bilancio.Quel che è apparso ancor più grave è che varie forze politiche – presenti o assenti in Parlamento – abbiano cavalcato la generale protesta, ben sapendo che "qualcuno" (ma, appunto, qualcun altro…) alla fine avrebbe dovuto approvare gli interventi necessari, sfruttando in tal modo il vantaggio di trarre essi stessi benefici dalla manovra (dato che il tracollo dell’Italia avrebbe travolto anche loro) senza assumere né il peso né la responsabilità e anzi facendosi belli agli occhi di ingenui elettori, quegli stessi che si dichiarano d’accordo sui sacrifici necessari, ma ovviamente a condizione che siano altri a sostenerli.Si discuterà per molto tempo sull’uno o l’altro aspetto della pesante manovra decisa dal Governo e degli altri provvedimenti che già si annunciano: ma non si potrà prescindere da un inoppugnabile dato di fatto, cioè che troppo a lungo il Paese ha vissuto al di sopra delle proprie possibilità e che l’ampiezza del debito accumulato impedisce, nel modo più assoluto, che i sacrifici possano essere accollati soltanto ai gruppi privilegiati (anche, se ovviamente, dovranno essere essi a contribuire di più). Questa amara constatazione chiama in causa da una parte la classe dirigente politica e dall’altra – se è consentito usare questo termine – la "classe dirigente" ecclesiastica. Alla prima si chiede la capacità di informare pazientemente e semplicemente – evitando i tecnicismi e gli anglicismi che quasi mai la gente comune capisce – i cittadini sulla realtà delle cose, per prepararlo a quella «fine di un’epoca» che tutti gli esperti riconoscono inevitabile. È finita la stagione degli incrementi progressivi e pressoché costanti dei redditi e dunque dei consumi. È un compito in senso lato "educativo" al quale una classe politica responsabile non può sottrarsi.Ma un’analoga responsabilità incombe anche sulla "classe dirigente" ecclesiastica (non solo vescovi e preti ma anche laici che svolgono un ruolo autorevole nella comunità): combattere quegli egoismi autoreferenziali, di singoli o di gruppi, che sono anti-cristiani prima ancora che anti-sociali; far ritrovare il gusto della sobrietà e della semplicità; riportare al centro della vita il gusto del bello, il calore degli affetti, la gioia dell’amicizia combattendo in ogni modo la frenesia consumistica in virtù della quale un Paese ancora oggi fra i più ricchi del mondo è popolato da persone che, in tranquilla "buona fede", ritengono di essere precipitate nella povertà perché devono rinunziare a qualche regalo.Sappiamo che purtroppo i poveri – i veri poveri – sono ancora fra noi; ma non è difendendo miopi interessi settoriali che li si aiuterà a uscire dalla povertà: perché questo avvenga occorre recuperare il primato del bene comune.
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