Sì, la guerra è oscura
venerdì 4 novembre 2022

Camminano nella città semibuia con una torcia in mano, tesi, soprattutto i più anziani, a distinguere ostacoli e gradini. Con l’autunno la sera cala sempre prima, e coglie le mamme di Kiev con i bambini che escono dal nido: allora al passeggino applicano per sicurezza un catarifrangente, di quelli da bicicletta, che scintillano ai fari delle auto. E ai figli le madri raccontano che si fa un nuovo gioco: camminare al buio. Da giorni l’elettricità a Kiev è razionata, o manca di colpo, in molti quartieri, per improvvisi blackout. I droni russi colpiscono le centrali elettriche. E allora i tram immobili sui binari, e nei casermoni di periferia a dieci piani, tutti uguali, eredità dell’Urss, si bloccano gli ascensori. Così che un vecchio o un malato, a un piano alto, è un prigioniero. Vanno a fare la spesa e rincasano in fretta le donne, con le borse pesanti – sperando che l’ascensore vada ancora.

Black out – noi qui in un Paese in pace fatichiamo a immaginarlo – è anche il cellulare che si scarica, e addio ai social, al web, agli amici. È la tv spenta, e nemmeno un notiziario che dica a che punto è la guerra; neanche un gioco a premi, per smettere almeno per un po’ di pensare. Black out è, d’improvviso, il silenzio.

Black out è paralisi, a Kiev, e il buio – nella logica spietata della guerra – è il nuovo alleato del nemico. Spente le vetrine, le insegne pubblicitarie, i locali e i lampioni, una città diventa una giungla. Tutto è lontano, tutto è irraggiungibile. E nei più vecchi la paura, negli androni bui dei palazzi, non fa accelerare il cuore, mentre cercano in tasca nervosamente le chiavi di casa? La corrente che manca è come sangue che smette di correre nelle vene, le strade nere deprimono, e suscitano ansia.

Non ci pensiamo, ma quanto le luci delle nostre città nella notte dicono di un mondo in pace. I nostri padri ci dicevano della guerra, dell’oscuramento, della carta scura tesa sulle finestre per nascondere le città agli aerei carichi di bombe. Raccontavano della luce dei fari delle bici, oscillanti nella not te. Noi bambini ascoltavamo increduli, nelle case ben illuminate, la sera, la voce di Mina o Claudio Villa alta dalle tv accese. Se lo diceva il papà, doveva essere vero, tuttavia ci era inimmaginabile, quel mondo buio (ed eravamo in qualche modo certi che non sarebbe tornato più, che non sarebbe accaduto mai più).

Com’è bello, pensate, tornando da un viaggio, avvicinarsi in aereo la sera a Milano o Roma o Parigi e già da lontano scorgere un’infinita ragnatela lucente; e, scendendo l’aereo, come pare di tuffarsi dentro un mare di luci. Tutta quella luce dice di pace, lavoro, vita, benessere, già quella luce è un segnale – cui non diamo rilevanza, tanto ci siamo abituati.

Le immagini di Kiev nell’oscurità ci raccontano un mondo lontano da noi, ma non impossibile. Un mondo che torna indietro. La guerra è là, in Ucraina, ci diciamo con dolore, ma ben lieti di esserne tanto lontani. Abbastanza lontani? Anche da noi si impara a spegnere le luci di casa e delle strade. Si avvicina Natale, ma dubitiamo di vedere grandi luminarie. Di questi tempi, con quel che costa la corrente, con la crisi, un po’ più buie saranno anche le nostre città. Non come Kiev certo, ma non splendenti come un anno fa. (Dalle stanze della memoria ti torna un confuso ricordo d’infanzia.

Si era sotto Natale, tu eri per mano alla mamma, accanto al Duomo, e tutto attorno a te splendeva e l’asfalto bagnato rispecchiava e moltiplicava la luce, Milano impazziva di luce. Primi anni Sessanta, la guerra un incubo alle spalle di quella gente lieta, a passeggio fra le vetrine colme di merce). E ora, di nuovo, il buio si fa avanti. Non da noi, per carità, certo. In Ucraina, il buio è il nuovo nemico. In Ucraina, dunque lontano. Abbastanza lontano? ti chiedi, senza osare dirlo a chi ti è accanto.

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