sabato 19 giugno 2010
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Sei miliardi e mezzo di euro. È quanto l’Italia ha stanziato, nell’arco di 10 anni, per cancellare (o riconvertire) il debito estero dei Paesi in via di sviluppo. L’ha fatto in virtù di una legge del 2000, varata sull’onda di una mobilitazione che, avviata da Giovanni Paolo II alla vigilia del Giubileo, è stata fatta propria dal mondo missionario e dalla Chiesa italiana. Una quarantina i Paesi beneficiati, 28 dei quali hanno visto il loro debito totalmente condonato. È forse il dato più interessante fra i tanti del corposo "Rapporto sul debito 2005-2010", presentato ieri dalla Cei, che ha istituito un team ad hoc sul tema del debito. Ma non è l’unico: il Rapporto ricorda anche i 17,1 milioni raccolti dalla Chiesa italiana per interventi in Guinea Conakry e Zambia: oltre mille progetti di sviluppo, che hanno visto il coinvolgimento della società civile locale e, anche per questo, hanno dato esiti concreti.Forse nemmeno i più entusiasti promotori della Campagna ecclesiale per la remissione del debito immaginavano risultati del genere. Eppure stiamo parlando di una goccia nell’oceano: sarebbe illusorio pensare, infatti, che basti condonare il debito estero dei Paesi poveri perché questo automaticamente generi sviluppo.Lo ricorda anche un’economista africana, Dambisa Moyo, nel suo sferzante studio dal titolo "Dead Aid". Di aiuti allo sviluppo si può morire – sostiene la giovane studiosa zambiana – laddove creano dipendenza e assistenzialismo invece di innescare relazioni nuove fra i Paesi. Un esempio? Nel 1987 Mobutu, padre-padrone dell’allora Zaire (oggi Repubblica democratica del Congo), chiese a Reagan condizioni più favorevoli per onorare il proprio debito con gli Usa, pari a 5 miliardi di dollari; ma subito dopo noleggiò un Concorde per trasportare la figlia a sposarsi in Costa d’Avorio.La cancellazione del debito dei Paesi poveri, negli intenti di quanti lanciarono la Campagna, voleva essere il preludio a un cambio di mentalità, l’avvio di un metodo nuovo, prima che una mera soluzione contabile. Del resto, come ricorda Benedetto XVI nella Caritas in veritate, «la solidarietà senza la sussidiarietà scade nell’assistenzialismo che umilia il portatore di bisogno. Gli aiuti internazionali allo sviluppo possono a volte mantenere un popolo in uno stato di dipendenza. Gli aiuti economici, per essere veramente tali, devono assumere in misura sempre maggiore le caratteristiche di programmi integrati e partecipati dal basso».Il punto focale della questione diventa allora il nesso fra giustizia e solidarietà. Non ci può essere aiuto reale se avviene a latere di rapporti economici non improntati a equità; in caso contrario, siamo in presenza di beneficenza avvelenata. Aiuti calati artificiosamente dall’alto, debiti cancellati più per calmare la coscienza che per attivare energie in loco non portano lontano. Per queste ragioni, il Rapporto Cei afferma a chiare lettere che occorre «ricentrare l’approccio ai percorsi di sviluppo, promuovendo un coinvolgimento della società civile locale e una responsabilizzazione nel dialogo attivo da parte delle istituzioni pubbliche».«Responsabilità»: ecco l’altra parola-chiave. Al di là delle ricadute economiche, se un merito importante ha avuto la Campagna ecclesiale contro il debito è di tipo educativo, perché mirava ad aumentare il tasso di consapevolezza (innanzitutto dei credenti, ma non solo) sulle questioni globali, stimolando una presa di coscienza e, di conseguenza, cambiamenti di stile di vita e di scelte politiche. Dieci anni dopo il Giubileo – in un mondo sempre più piccolo, provato al fuoco di una dura crisi economica e dove la portata del fenomeno migratorio chiede interventi di lunga gittata – è proprio quello spirito che va recuperato e rilanciato.
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