lunedì 6 agosto 2012
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​La morte di Renato Nicolini, l’inventore della mitica Estate romana, mi trova addolorato. Era un uomo spiritualmente bello e di allegra vitalità: di un’allegria, aggiungerei, contagiosa. Era un intellettuale raffinato ma che ha goduto – e godeva ancora – di un autentico e vasto consenso popolare. Un intellettuale di indubbia nobiltà e migliore di molti amministratori capitolini che sarebbero a lui succeduti. Era tutto questo: mentre trasformava, non senza genio, nella Roma che era anche dell’austero Argan (che fortissimamente lo volle) e sarebbe stata dell’indimenticabile Luigi Petroselli, i codici stessi della cultura e della politica: che diventavano, con grande anticipo sui nostri tempi mediatici, spettacolo.Era tutto questo, insomma, Nicolini: e lo era con un’intelligenza febbrile, formicolante di idee e trovate, che non saprei definire se non dadaista, d’un dadaismo che sarebbe diventato poi di massa, l’ultima declinazione del nichilismo post-moderno (molto lucido e consapevole, nel caso di Nicolini), ma risolutamente consumistico, concentrato sull’effimero, giovanilistico a oltranza, ludicamente sprezzante delle tradizioni, figlio della velocità, di tutte le velocità, e nemico della lentezza che in se stessa si riposa. Ma – lo dico senza polemica, da dadaista qual sono – il dadaismo al potere (che nei decenni successivi, persino ai massimi livelli, sarebbe diventato una forma di individuale e pubblica irresponsabilità) può avere anche effetti devastanti e non necessariamente di liberazione collettiva.Oggi, che molta acqua è passata sotto i ponti dell’Urbe, credo che su questa esperienza si possa e debba fare un ragionamento pacato, meno legato alla pur dolorosa contingenza, ma, se così posso dire, di natura epistemologica: in relazione, cioè, a quell’idea di cultura e politica che Nicolini, come pubblico amministratore, ha profondamente innovato, forse in modo irreversibile. Il problema, insomma, non è stare a chiederci quanto sia stato bello e giusto, al Massenzio, proiettare per 8 ore di seguito, che so?, la saga di Guerre Stellari: se fosse questo, infatti, saremmo al concetto di sagra applicato al cinema. Il problema è domandarsi che cosa abbia significato la trasformazione del fatto culturale, anche quello più segretamente privato, in evento pubblico, e la transumanazione dell’autore, negli anni in cui i teorici della letteratura ne proclamavano la morte, in divo. Il problema, insomma, è interrogarsi se sia legittimo, esteticamente e moralmente, mutare una metropoli in palcoscenico da concerto, da stadio: magari con la giustificazione di «far sentire gli abitanti delle periferie più degradate parti integranti della città», per farli entrare «nella Basilica di Massenzio da protagonisti e non da esclusi come accadeva per l’Auditorium di Santa Cecilia».Prendete il Festival della poesia di Castelporziano: che consacrò definitivamente la perniciosa idea che la poesia non fosse quell’attività aristocraticissima e solitaria che è, ma un fatto di natura e pubblico: magari cucinando sul palco, tutti insieme, un bel minestrone. È proprio da queste esperienze che sarebbe nato il veltronismo. Cioè la politica d’uno che diceva di voler essere il Kennedy di domani mentre sognava di diventare il De Gregori di oggi. Col risultato di fare politica come un cantautore e scrivere romanzi come un politico.
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